Mi sono chiesto cosa scrivere per Pasqua in questa sede. Propongo questa mia breve riflessione.
Supermercati aperti a Pasqua. Sindacati e Chiesa polemici… notizia che da qualche anno si ripete puntualmente.
Apparentemente, sono in gioco tre diversi interessi: quello commerciale, quello contrattuale e quello religioso. In sintesi, chi vende lamenta un calo nel fatturato a causa della crisi o quant’altro, vedendosi così «costretto» a sfruttare qualunque spazio di vendita utilizzando orari di apertura nuovi. Chi ha il ruolo di tutela dei lavoratori afferma che queste aperture non hanno portato ad un incremento del fatturato rendendo il rapporto costi/benefici in perdita, con la complicazione che, nei gruppi famigliari, nei giorni festivi i servizi, quali asili, scuole ecc., non sono operativi, per non parlare del fatto che alcuni lavoratori si sentono costretti ad accettare, pena conseguenze contrattuali. La religione, c’è poco da dire, non può che rimanere critica di fronte ad un asservimento a «Mammona» (cfr. Luca 16:13) così plateale.
Non sono qui a fare un sermone, ma credo che questo voler eliminare i giorni di «festa» sia deleterio a prescindere dal credo religioso. Partiamo comunque da un brano della Scrittura, Esodo 20:10-11: «ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nella tua città; poiché in sei giorni il SIGNORE fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò il SIGNORE ha benedetto il giorno del riposo e lo ha santificato».
Consacrato al SIGNORE, certamente, ma anche all’uomo come immagine di Dio e, pertanto, destinato a vivere al ritmo del suo Creatore.
Un non credente potrebbe obiettare che sto utilizzando argomenti non condivisi da tutti, ma, a mio parere, non è così. Proseguo con il discorso.
Il giorno di festa interrompeva la normale attività quotidiana. Nel mondo latino il termine festa era reso da “festum” e da «dies festus» (giorno di festa), indicante la «gioia pubblica» e il termine «feriae» indicava l’«astinenza dal lavoro in onore degli dèi». Nel mondo greco è importante ricordare il termine Kairos (Kαιρός), ossia il «momento giusto» per compiere una azione, ma anche il “tempo del dio”. Kairos è una determinazione qualitativa del tempo e non quantitativa, che appartiene a Kronos (Κρόνος). Kairos è anche «un tempo intermedio», un momento nel quale «qualcosa» di speciale accade. Tale tempo è «opportuno» perché appartiene alla natura delle cose e, per estensione, teologicamente appartiene a Dio che è al vertice della natura. Non a caso nel Nuovo Testamento Kairos significa «il tempo designato nello scopo di Dio», il tempo in cui Dio agisce, vedi per esempio in Marco 1:15: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Πεπλήρωται ὁ καιρὸς καὶ ἤγγικεν ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ).
La festa rientra, pertanto, nei ritmi naturali in quanto rappresenta un momento di passaggio da una attività ad una successiva, come è evidente nelle grandi festività, che, in tutte le culture, seguono i ritmi stagionali.
Ho usato la parola ritmo perché è un qualcosa dinanzi ai nostri occhi, anche di coloro che non credono. I cicli della natura prevedono momenti attivi e passivi. Come non ricordare le belle parole del terzo capitolo del Qoheleth (Ecclesiaste): «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace».
La vita dell’uomo, come appare anche dal brano appena letto, è un succedersi di contrari, un flusso eracliteo (Πάντα ῥεῖ – Pánta rhêi) che va rispettato nei suoi ritmi, non possiamo rompere l’equilibrio senza pagarne le conseguenze, come, ad esempio, ben sa la medicina cinese (中醫 zhōng yī), per la quale il corpo è un universo in miniatura ed è, di logica conseguenza, uno specchio dell’ordine sociale. Gli elementi in gioco vengono rappresentati dai concetti di Qi (氣), Yin (陰) e Yang (陽), che non sto qui a discutere, ma che, ricordo, fondano la loro dinamica sul principio di equilibrio. Tale equilibrio rende l’agire umano virtuoso (inteso in senso platonico di ἀρετή, areté) e viene raggiunto attraverso una rigorosa pratica in qualunque campo della vita. Sempre in cinese questo complesso concetto è sintetizzato dalla parola Gōngfu (功夫). Quando l’uomo eccelle in qualcosa significa che compie un certo atto in maniera ottimale, e l’essere virtuoso è una modalità perfetta dell’essere.
Del resto, il principio di equilibrio è, innegabilmente, una costante antropologica, basterebbe compiere una ulteriore ricognizione, anche rapida, nella storia del pensiero umano in tutte le culture per rendercene conto facilmente. Nella tradizione occidentale troviamo il concetto sintetizzato nell’Etica a Nicomaco (ΙΙ, 5-9 – Β6, 10-13) di Aristotele: «il mezzo è la cosa migliore» (μέσον τε καὶ ἄριστον), latinizzato nel celebre «in medio stat virtus».
In breve, oggi l’uomo ha rinunciato, magari inconsapevolmente, ai suoi ritmi naturali ed al suo equilibrio. Questo influisce anche nei rapporti sociali, soprattutto in quelli familiari, dove un momento di pausa e di riflessione sarebbe necessario per ricucire gli inevitabili strappi che una vita, volente o nolente, irregolare ci porta ad avere. Ma anche la sfera del riposo in senso personale e profondo viene a mancare. La religione, nella sua secolare saggezza, aveva compreso sin dagli albori questa necessità di «staccare la spina», per usare una locuzione moderna. Non siamo uomini-macchina in una catena di produzione fordiana, ma neppure animali da ingrasso in una ideale catena produttore-consumatore. Dante aveva ammonito “Considerate la vostra semenza: | fatti non foste a viver come bruti, | ma per seguir virtute e canoscenza. (Inferno XXVI, 118-120). Ma questo asservirci al «dio consumo», tanto da sacrificare il nostro tempo interiore non è forse una rinuncia alla nostra stessa umanità?
Chi si considera cristiano, spesso e volentieri, non si rende conto quanto sia contraddittorio seguire queste sirene (Σειρῆνες) di gioia effimera quali il consumismo fine a sé stesso o il rinunciare a rispettare i momenti di «riposo». Chi ha posizioni diverse, pienamente legittime, dovrebbe concentrarsi sui valori pieni della vita, che solo vivendo con intelligenza critica possono essere colti ed apprezzati.
Con questo, auguro a tutti una Buona Pasqua. Che possa essere un momento di riposo e riflessione, a prescindere da come la pensiate.
Mi congedo citando, per amore di laicità, come faccio sempre, i celeberrimi ed intelligenti versi di Francesco Guccini scritti nel 1967:
«Ho visto la gente della mia età andare via
lungo le strade che non portano mai a niente.
Cercare il sogno che conduce alla pazzia
nella ricerca di qualcosa che non trovano
nel mondo che hanno già.
Lungo le notti che dal vino son bagnate
dentro le stanze da fastidio trasformate
lungo le nuvole di fumo di un mondo fatto
di città essere pronto ad ingoiare la nostra
stanca civiltà e un Dio ch’è morto:
ai bordi delle strade Dio è morto,
nelle auto prese a rate Dio è morto,
nei miti dell’estate Dio è morto.
Mi han detto che questa mia generazione
ormai non crede in ciò che spesso è mascherato
con la fede, nei miti eterni della patria e dell’eroe
perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò
che è falsità, e per il fatto di abitudine e paure, una politica
che è solo far carriera, il perbenismo interessato,
la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la
ragione e mai col torto è un Dio ch’è morto:
nei campi di sterminio Dio è morto,
coi miti della razza Dio è morto,
con gli odi di partito Dio è morto.
Ma penso che questa mia generazione è preparata
a un mondo nuovo e una speranza appena nata,
ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi
perché noi tutti ormai sappiamo che se
Dio muore per tre giorni e poi risorge,
in ciò che noi crediamo Dio è risorto,
in ciò che noi vogliamo Dio è risorto,
nel mondo che faremo Dio è risorto.
Dio è risorto, Dio è risorto,
Dio è risorto, Dio è risorto».
[Giorgio Ruffa, Presidente studiluterani.it]