Un testo del 1521, illuminante sulla figura di Maria. Lutero identifica tutto in quell’assolutamente gratuito che è l'”essere di Dio” cui Maria appare nella storia e nella vita della creazione. Da questo commento Maria appare soprattutto nella luminosa esemplarità di strumento: Maria vive in maniera straordinaria l’impresa che compete a ogni cristiano, collocandosi pertanto nel cuore stesso dell’umanità. Certamente la teologia protestante rifiuta qualunque lettura co-redentrice, ma è già abbastanza sublime come la potenza di Dio possa trasformare un «umile ancella» nello strumento della sua azione salvifica giustificando così l’aspetto umano del Cristo.
Proponiamo un estratto dell’opera, la Prefazione ed il commento al primo versetto, che, peraltro, contiene una interessante argomentazione sulla dottrina della tripartizione dell’uomo.
PREFAZIONE
Per comprendere bene questo santo canto di lode, bisogna precisare che la benedetta Vergine Maria parla in base alla sua esperienza, essendo stata illuminata e istruita dallo Spirito Santo; nessuno, infatti, può capire correttamente Dio e la Sua parola, se non gli è concesso direttamente dallo Spirito Santo. Ma ricevere tale dono dallo Spirito Santo, significa farne l’esperienza, provarlo, sentirlo; lo Spirito Santo, insegna nell’esperienza come in una scuola, all’infuori della quale nulla s’impara se non parole e chiacchiere. Dunque la santa Vergine, avendo esperimentato in sé stessa che Dio opera grandi cose in lei, per quanto umile, povera e disprezzata, lo Spirito Santo le insegna questa grande arte comunicandole la sapienza, in base alla quale Dio è il Signore che si compiace di innalzare ciò che è in basso, e di abbassare ciò che è in alto, in altre parole, che distrugge ciò che è costruito e costruisce ciò che è distrutto.
Così come al principio della creazione, egli creò il mondo dal nulla, per cui è anche chiamato Creatore Onnipotente, ancora oggi il suo modo di operare conserva questo carattere,e lo conserverà fino alla fine dei tempi, continuando a trarre da ciò che è nulla, piccolo, disprezzato, misero e morto, qualche cosa di prezioso, onorevole, beato e vivente, e viceversa, tutto ciò che è prezioso, onorevole, beato, vivente, Egli lo riduce a niente, a una cosa piccola, disprezzata, misera ed effimera. Nessuna creatura può agire in questo modo, poiché nessuno può dal nulla creare qualche cosa.
Gli occhi di Dio, dunque guardano soltanto verso il basso e non verso l’alto, come viene detto in Daniele, III: “Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo gli abissi e siedi sui cherubini”; e nel Salmo CXXXVII: “In alto sta il Signore, ma si prende cura dei piccoli, da lontano riconosce il superbo”. Così pure dice il Salmo CXI: “Dov’è un Dio simile al nostro, che siede nei luoghi eccelsi, eppure riguarda agli umili nei cieli e sulla terra?”. Ora, poiché sta tanto in alto che non esiste nessuno pari a Lui in grado di sovrastarLo, Egli, non potendo guardare al sopra di sé e neppure accanto a sé, deve necessariamente guardare in sé stesso e sotto di sé; ecco perché, quanto più uno si trova in basso, tanto meglio Egli lo vede.
Ma il mondo e gli occhi degli uomini fanno il contrario, guardano soltanto in alto, vogliono in ogni modo salire, come è detto nei Proverbi, XXX: “C’è gente così superba e sicura di sé che guarda gli altri dall’alto in basso!”.
Tutti i giorni possiamo constatare come ognuno tenda ad elevarsi al di sopra di se stesso, ad una posizione d’onore, di potenza, di ricchezza, di dominio, ad una vita agiata e a tutto ciò che è grande e superbo. E ognuno vuole stare con queste persone, corre loro dietro, le serve volentieri, ognuno vuol partecipare alla loro grandezza. Non per nulla nella Scrittura i re e i principi pii sono rari. Nessuno vuole guardare in basso, dove c’è povertà, vituperio, bisogno, afflizione e angoscia, anzi tutti distolgono da ciò lo sguardo. Ognuno sfugge le persone che si trovano in quella condizione, le scansa, le abbandona, nessuno pensa di aiutarle, di assisterle e di far sì che anch’esse migliorino nella loro situazione: devono rimanere in basso ed essere disprezzate. Non v’è alcun creatore tra gli uomini che voglia fare qualche cosa dal nulla, come pure insegna san Paolo in Romani, XII: “Fratelli diletti, non stimate le cose alte, ma attenetevi alle umili”.
Dio soltanto sa riguardare a quelli che si trovano nel dolore più profondo e nell’afflizione, ed è vicino a tutti coloro che si trovano in infime condizioni, come dice Pietro: “Egli resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili”. E da quest’abisso salgono l’amore e la lode di Dio. Nessuno può lodare Iddio, se prima non ha iniziato ad amarlo. Così pure nessuno lo può amare, se non percepiesce il suo amore e la sua bontà. Egli, però, non può essere conosciuto in tal modo se non attraverso le sue opere. Quando, perciò, in base all’esperienza, lo si conosce come un Dio che guarda verso il basso e soccorre i poveri, i disprezzati, i miseri, gli afflitti, gli emarginati e quelli che non contano nulla, egli diventa tanto amabile che il cuore trabocca dalla gioia, e palpita e sussulta per il grande piacere che trova in Lui.
E allora immediatamente lo Spirito Santo insegna nell’esperienza questa entusiasmante arte e questo piacere. Per questa ragione Dio ha fatto passare su noi tutti la morte e ha dato ai suoi figlioli più cari e ai cristiani la croce di Cristo con innumerevoli sofferenze e necessità, anzi talvolta lascia perfino che cadano nel peccato, per poter intervenire per aiutarli nella miseria, per compiere molte opere e manifestarsi loro come un vero Creatore, ed apparire in tal modo degno di amore e di lode; ma purtroppo il mondo con il suo sguardo altero gli si oppone continuamente e l’ostacola mentre Egli cerca di provvedere, di operare, di soccorrere, di farsi conoscere, amare e lodare, togliendo a Lui tutto quest’onore e privandosi, così facendo, della gioia, del piacere e della salvezza. Così Dio ha gettato nelle profondità di ogni afflizione anche Cristo, suo unico dilettissimo Figliolo, e in Lui in modo eminente ha mostrato come Egli suole guardare, operare, soccorrere, consigliare e volere, e a che cosa tende con tutto questo; perciò anche Cristo, che ha ben sperimentato tutto questo, rimane in eterno pieno dell’amore e della lode di Dio, come dice anche il Salmo XV: “Tu lo riempi di pura gioia nel tuo cospetto”, perché ti vede e ti conosce. Al riguardo anche il Salmo XLIV dice che tutti i santi non faranno altro che lodare Iddio in cielo, perché Egli ha volto il Suo sguardo in basso su di loro e si è fatto loro conoscere come un Dio degno di amore e di lode.
In tal modo, anche la dolce madre di Cristo ci insegna con l’esempio della sua vita e con le sue parole, come si deve conoscere, amare e lodare Iddio. E poiché, gioisce nel suo spirito, lodando e glorificando Dio per aver rivolto il Suo sguardo su di lei nella sua umile condizione, dobbiamo presumere che avesse genitori poveri, disprezzati e di umile condizione.
Vogliamo chiarire questa circostanza ai ciechi e alle persone semplici . Senza dubbio anche a Gerusalemme, come in tante altre città, vi erano figlie di sommi sacerdoti e consiglieri, le quali erano ricche, belle, giovani, colte e onoratissime da tutti (come lo sono ora le figlie dei re, dei prìncipi e dei ricchi). A Nazareth, che era la sua città, non era la figlia di uno dei capi, ma di un semplice e povero cittadino, il quale non godeva né di onori, né di considerazione. E fra le figlie dei suoi vicini era una fanciulla modesta che badava al bestiame e accudiva alle faccende domestiche, proprio come oggi avviene per una povera ragazza di casa che attende alle necessità familiari. Così aveva annunziato Isaia, al capo XI: “Un virgulto spunterà dal tronco di Jesse e un fiore nascerà dalla sua radice, sul quale riposerà Io Spirito Santo”. Il tronco e la radice è la progenie di Jesse o di Davide, ossia la vergine Maria, il virgulto e il fiore è Cristo. Ora come è incredibile che da un tronco e da una radice secchi e marci nascano un bel virgulto ed un fiore, così non sembrava possibile che la vergine Maria dovesse diventare madre di un tale fanciullo.
Ritengo, inoltre, che lei venga definita tronco e radice, non soltanto per il fatto di essere diventata madre restando vergine, nello stesso modo soprannaturale di un germoglio che nasca da un ceppo morto, ma anche perché la stirpe di Davide – che anticamente aveva goduto nel mondo di grande onore, potenza, ricchezza e felicità e al momento della nascita di Cristo, ormai caduta in miseria, veniva disprezzata come un tronco morto, soppiantata dai sacerdoti che regnavano godendo degli stessi onori – non appariva più in grado di generare un re glorioso. Ma proprio nel momento in cui questa misera condizione appariva più accentuata, da quel ceppo disprezzato nacque Cristo; da quell’umile e povera fanciulla nacque il germoglio e il fiore, da quella ragazza che le figlie degli eminenti Hanna e Caiafa non avrebbero ritenuta degna di essere la loro ultima serva. Perciò mentre le azioni e lo sguardo di Dio sono rivolti verso il basso, lo sguardo e le azioni degli uomini risultano esserlo soltanto verso l’alto.
Questo è il motivo del suo canto di lode. Ascoltiamolo ora parola per parola.
L’anima mia magnifica il Signore.
Le sue parole sono l’espressione di un grande amore e di una vivissima gioia, ciò spiega perché il suo animo e la sua vita si elevano nello spirito. Maria non dice: Io magnifico Dio, ma l’anima mia; come se volesse dire: tutta la mia vita e i miei sensi sono come sorretti dall’amore di Dio, dalla sua lode e dalla gioia che è in Lui, tanto che, non più padrona di me stessa, vengo elevata più di quanto io non mi elevi alla lode di Dio, come accade a tutti coloro che, pervasi da una dolcezza divina nello spirito, sentono più di quanto non riescano ad esprimere; lodare Dio con gioia non è, infatti, opera umana, ma è piuttosto un subire gioiosamente un’influenza che deriva solo da Lui, che non si può esprimere a parole, ma che si può percepire solamente con l’esperienza, come dice Davide nel Salmo XXXIII: “Gustate e vedete quant’è dolce il Signore Iddio; beato l’uomo che in lui confida”. Egli dice prima gustate e poi vedete, perché non Lo si può conoscere senza averlo prima personalmente sperimentato e sentito, cosa impossibile per chi non confida in Lui con tutto il cuore, quando si trova nei luoghi profondi dell’angustia. Perciò il Salmista aggiunge subito: “Beato l’uomo che confida in Dio”, poiché sperimenterà l’opera di Dio e sentirà quella dolcezza che pervade ogni intelletto e conoscenza.
Analizziamo il testo parola per parola. Innanzi tutto : “L’anima mia”. La Scrittura distingue nell’uomo tre parti. S. Paolo, infatti, in 1° Tessalonicesi, ultimo capo, dice: “L’Iddio della pace vi santifichi interamente, e tutto l’essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile per la venuta del Signor nostro Gesù Cristo”. Ciascuna di queste tre parti costituiscono nella sua totalità l’uomo, che viene anche diviso in due parti, cioè in carne e spirito, che non è una suddivisione naturale, ma qualitativa. L’essere umano è dotato, cioè, di spirito, anima e corpo che possono essere buoni o cattivi, ossia, spirito o carne. Ma per il momento questo non riguarda il nostro argomento.
La prima parte, lo spirito, costituisce ciò che di più alto e di più nobile c’è nell’uomo, che gli consente di percepire le cose incomprensibili, invisibili ed eterne. E’, in altre parole, la casa in cui dimora la fede e la parola di Dio; ecco perché Davide, nel Salmo L, dice: “Signore, crea nel mio intimo uno spirito giusto”, cioè fede forte e viva. Dice, invece, degli increduli, nel Salmo LXXVII: “Il loro cuore non era orientato verso Dio e il loro spirito non era fedele a Lui”.
La seconda parte, l’anima, è lo stesso spirito sotto il profilo naturale; ad essa compete il compito di vivificare il corpo per mezzo del quale agisce. Nella Scrittura l’anima viene spesso intesa come vita. Perciò, mentre lo spirito può vivere senza il corpo, il corpo non vive senza lo spirito, il quale, come è di comune esperienza, vive ed opera anche durante il sonno. L’anima non sa afferrare le cose incomprensibili, ma soltanto ciò che la ragione le consente di conoscere e di misurare. La ragione, quindi, che è la luce di questa casa, non opererà mai senza errore se non viene illuminata dallo spirito per mezzo della luce superiore della fede. Essa è troppo limitata per intendere le cose divine. A queste due parti dell’uomo la Scrittura attribuisce molte cose, come sapientia e scientia, la sapienza allo spirito, la conoscenza all’anima, cui si aggiungono anche l’odio, l’amore, il piacere, l’orrore e altre cose simili.
La terza parte è costituita dal corpo con le sue membra, che con le loro attività realizzano in concreto ciò che l’anima conosce e lo spirito crede. Nella Scrittura troviamo una similitudine di tutto questo. Mosè fece un tabernacolo con tre diversi edifici (Es. 26:33). Il primo si chiamava sanctum sanctorum, nel quale, in assoluta oscurità, abitava Dio, il secondo era il sanctum nel cui interno c’era un candelabro con sette bracci e sette lampade. Il terzo edificio, che si chiamava atrium, il cortile, stava sotto il cielo aperto, alla luce del sole. In quest’immagine è raffigurato il cristiano. Il suo spirito è il sanctum sanctorum, dimora di Dio nella fede oscura, senza luce, poiché crede ciò che non vede, non sente e non comprende. L’anima sua è il sanctum, ove ci sono le sette luci, cioè ogni specie d’intelligenza, ogni dono di discernimento, sapienza e conoscenza delle cose materiali visibili. Il suo corpo è l’atrium, la parte tangibile, che tutti possono vedere quando agisce ed opera.
Paolo prega il Dio della pace di volerci santificare non soltanto in una parte di noi, ma in tutto il nostro essere, nello spirito, nell’anima, nel corpo, affinché tutto sia santo. Non c’è molto da dire sulla ragione di una simile preghiera.
In altre parole: se lo spirito cessa di essere santo, nulla più è santo. La maggior lotta si sostiene per la santità dello spirito, la quale, essendo costituita dalla semplice e pura fede – in quanto lo spirito, come si è detto, non si occupa di questioni razionali – risulta esposta ai maggiori pericoli. Ecco, allora, si presentano dei falsi dottori che, per adescare lo spirito, propongono il compimento di opere quale mezzo per diventare pii. E se lo spirito non è protetto e non è savio, cade nell’inganno, si abbandona alle opere esteriori pensando di diventare in tal modo pio. In tal modo, però, ben presto la fede in Dio viene meno e lo spirito muore.
Allora sorgono sette e ordini religiosi, e l’uno è un certosino, l’altro un francescano scalzo, questo vuole salvarsi con il digiuno, quello con preghiere, uno con un’opera, un altro con un’altra. Eppure sono tutte opere e ordini che essi stessi si sono scelti, mai comandati da Dio, immaginati soltanto dagli uomini. Non abbracciando la fede, insegnano a fondarsi sulle opere, entrando in contrasto fra di loro, in quanto ognuno vuol essere il migliore e disprezza l’altro, come ora fanno i nostri osservanti che si vantano e si gonfiano.
Contro questi santi per le proprie opere e dottori ipocritamente pii, Paolo prega e dice che Dio è un Dio di pace e di concordia, che questi santi discordi e inquieti non riescono a conseguire, né a conservare, a meno che non abbandonino le loro pretese, e nello spirito, mediante la fede, riconoscano che le opere suscitano soltanto differenza, peccato e discordia, e che soltanto la fede ha la capacità di rendere pii, concordi e pacifici, come è detto nel Salmo LXVI: “Dio fa sì che noi dimoriamo concordi nella casa”, e nel Salmo CXXXII: “Quanto è buono e piacevole che fratelli dimorino insieme”.
Non si consegue la pace in nessun altro modo che insegnando che nessun’opera o pratica esteriore, ma soltanto la fede, cioè la fiducia nell’invisibile promessa grazia di Dio ci rende pii, giusti e beati; di questo ho trattato ampiamente nel sermone delle buone opere. Dove non c’è la fede bisogna che vi siano molte opere che poi creano dissensi e discordie, per cui Dio si ritrae. Perciò Paolo qui non si accontenta di dire : il vostro spirito, la vostra anima ecc., ma : “tutto il vostro spirito”. È questo che soprattutto importa. Egli usa in questo passo una bella parola greca: “tò olòcleron pneuma emòn”, cioè, il vostro spirito che possiede tutta l’eredità, come se volesse dire: Non lasciamoci indurre in errore da nessuna dottrina delle opere, soltanto lo spirito credente possiede ogni cosa. Tutto deriva soltanto dalla fede dello spirito e io prego che questo spirito che tutto riceve, Dio voglia difendervelo dalle false dottrine che per mezzo delle opere pretendono di creare la fiducia in Dio, ma ciò invano, in quanto sono fondate su un erroneo presupposto e non sulla sola fiducia nella grazia di Dio.
Se dunque questo spirito che ha tutti i doni di Dio viene conservato, anche l’anima e il corpo si conserveranno senza errore e non commetteranno cattive azioni. Se, invece, lo spirito è senza fede non è possibile che l’anima e il corpo non commettano ingiustizie ed errori, sebbene sia buona la loro intenzione.
Così a causa di questo errore e della buona ma mal diretta intenzione dell’anima, anche tutte le opere del corpo sono cattive e reprensibili, per quanto uno digiuni fino a morire e compia le opere di tutti i santi. Per non operare e vivere invano, dobbiamo, perciò, ricordarci sempre che Dio guarda innanzi tutto lo spirito e poi l’anima e il corpo, e che, quindi, diveniamo veramente santi, al riparo non soltanto dai peccati manifesti, ma anche e specialmente dalle false opere buone.
Per ora questo basti a spiegazione delle due parole, “anima” e “spirito”, che sono molto usate nella Scrittura. Poi viene la parola “magnificat”, che significa “renderlo grande”, “esaltarlo” e “tenerlo in grande considerazione”, poiché Egli può, sa e vuole fare molte cose grandi e belle . Ne consegue che in questo canto di lode la parola “magnificat”, come il titolo di un libro, indica l’argomento in esso trattato, accenna al motivo del canto di lode, cioè le grandi opere di Dio compiute per fortificare la nostra fede, per consolare tutti gli umili e spaventare tutti i potenti della terra. Dobbiamo, perciò, tener presente che il canto di lode è orientato a questa triplice finalità ed è di giovamento, poiché ella non lo ha cantato soltanto rivolta a se stessa, ma a tutti noi, affinché le facessimo coro.
Non è possibile, però, che uno si spaventi o si consoli per le grandi opere di Dio se soltanto crede che Dio può e sa fare grandi opere; è necessario che creda che Dio veramente vuole e ama fare così. Anzi non basta neppure che tu creda che egli voglia compiere grandi opere soltanto negli altri escludendo te dall’azione divina, come fanno coloro che non amano Dio quando si sentono forti, ma poi nelle prove affondano nella depressione.
Invero, una fede di quel tipo è vana e del tutto morta come un’illusione da favola; invece, senza incertezze né dubbi tu devi avere davanti agli occhi la sua volontà, nella ferma convinzione che egli vuole compiere grandi cose anche in te. Fede vivente è quella che penetra nell’uomo e lo trasforma interamente; è la fede che domina, che esige molta attenzione quando si occupa una posizione elevata, ma che consola quando ci si trova in misere condizioni. Quanto più occupi una posizione elevata, tanto più devi temere; e quanto più sei in basso ed oppresso, tanto più hai la possibilità di essere consolato, mentre ben diversi sono i caratteri di quella fede vana della quale abbiamo parlato. Cosa dire dell’angoscia della morte? Ti basta credere che Egli può, sa e vuole aiutarti nella realizzazione dell’opera grande e ineffabile della tua liberazione dalla morte eterna, che ti renderà eternamente beato ed erede di Dio. Questa fede può ogni cosa, come dice Cristo; ha esperienza delle opere, dell’amore e della lode divini e del canto, con essa l’uomo tiene in grande considerazione Dio e lo magnifica. Non lo rendiamo grande nella sua natura immutabile, ma nella nostra conoscenza e nel nostro sentire, quando, cioè, lo teniamo in grande considerazione e lo esaltiamo specialmente per la sua bontà e la sua grazia.
Ecco perché la santa Madre non dice “la mia voce” o “la mia bocca” , e neppure “la mia mano” o “i miei pensieri” o “la mia ragione” o “la mia volontà”, magnifica il Signore. Mentre molti lodano Dio a gran voce, predicano con belle parole, discorrono di lui, disputano, scrivono e dipingono e costruiscono teorie intorno a lui, cercando di raggiungerlo con la ragione e la speculazione ed esaltandolo con una falsa pietà, Maria dice: “L’anima mia magnifica”, cioè tutta la mia vita, il mio sentire, la mia forza lo ammirano, tanto che ella è rapita in lui e si sente esaltata nella sua volontà buona e piena di grazia, come mostra il versetto seguente. Noi ci rendiamo conto di questo quando manifestiamo nei Suoi confronti un’attenzione particolare, quando tutti commossi, diciamo di avere una grande stima di lui, quando, insomma, la nostra anima lo magnifica. E ancor più ci sentiamo vivamente toccati quando percepiamo l’immensa bontà di Dio che si rivela nelle sue opere, allora, tutta la nostra vita e la nostra anima si commuovono, tutto il nostro essere sente il desiderio di cantare e di lodare, nonostante l’inadeguatezza di tutte le nostre parole e dei nostri pensieri.
Ma vi sono due specie di spiriti ipocriti che non possono cantare bene il Magnifìcat. I primi sono quelli che non sanno lodare Iddio, se prima Egli non fa loro del bene, come dice Davide: “Essi ti lodano, quando tu fai loro del bene”.
Sembra che essi lodino molto Iddio, non essendo, però, disposti a sopportare l’oppressione e l’umiliazione, e quindi non potendo conoscere le vere opere di Dio, non possono nemmeno veramente amare e lodare Iddio.
Oggi, tutto il mondo è pieno di sacre funzioni, di lodi a Dio con canti, prediche, suoni e musiche; il Magnifìcat viene cantato in modo superbo, ma tuttavia, è triste che un canto tanto eletto debba rimanere senza forza, in quanto noi non lo intoniamo soltanto nelle occasioni felici, mentre se le cose ci vanno male il canto tace, Dio non viene più lodato, perché pensiamo che Egli non possa o non voglia operare nella nostra vita. Così anche il Magnifìcat rimane senza forza.
Peggiori sono gli altri che commettono l’errore contrario, che traendo vanto dai beni di Dio non li attribuiscono alla pura bontà divina, ma vogliono anch’essi averne un merito, essere onorati e stimati dagli altri uomini a causa di essi. Ricevono il gran bene che Dio ha compiuto e si attaccano ad esso ritenendolo di loro spettanza, mentre nei confronti di coloro che non lo possiedono manifestano superiorità, credendosi persone speciali. In verità, questo è un atteggiamento molto instabile e pericoloso. Quando si ricevono i beni di Dio pensando che ciò sia una cosa naturale, si diventa orgogliosi e soddisfatti di se stessi. Perciò qui bisogna ben sottolineare l’ultima parola, “Dio”. Maria, infatti, non dice: “L’anima mia magnifica se stessa”, oppure “ha grande stima di se stessa” – anzi non voleva per niente avere stima di sé -, ma essa magnifica soltanto Dio, al quale attribuisce ogni cosa, mentre si spoglia e riporta di nuovo a Dio tutto ciò che da lui aveva ricevuto.
Sebbene avesse accolto in sé quella grande opera di Dio, conservò il proposito di non elevarsi al di sopra del più piccolo uomo della terra, se, infatti, lo avesse fatto sarebbe precipitata con Lucifero nell’abisso dell’inferno. Questo era il suo modo di pensare. Se un’altra fanciulla avesse ricevuto tali beni da Dio, avrebbe voluto essere ugualmente lieta e gioire con lei come per se stessa; anzi, considerava se stessa indegna di tale onore e degni tutti gli altri, e sarebbe stata anche lieta se Dio le avesse tolto quei beni e in sua presenza li avesse concessi ad un’altra. Perciò, non si è inorgoglita per nulla di tutto ciò che ha ricevuto, ritenendolo effetto della libera bontà di Dio e reputandosi solo un ospizio e un’albergatrice volonterosa di tale ospite; ecco perché ha anche conservato quei doni per l’eternità.
Questo, dunque, significa magnificare solo Dio, stimare lui solo grande e non avere alcuna pretesa per noi. Risulta, così, chiaro a quale grande pericolo di caduta e di peccato essa abbia resistito, poiché costituisce un non piccolo miracolo il non essersi lasciata prendere dall’orgoglio e dalla presunzione nel ricevere questi beni. Non pensi che abbia un cuore meraviglioso? Come madre di Dio è elevata sopra tutti gli uomini, ciò nonostante, rimane così semplice e modesta da non avere sotto di sé nemmeno la più piccola ancella.
E noi, poveri noi uomini – che quando abbiamo qualche bene, potere o onore o se soltanto siamo un po’ più belli degli altri, le nostre pretese divengono smisurate e non possiamo stare a fianco di uno più piccolo di noi – che cosa faremmo mai se ricevessimo dei beni tanto grandi e sublimi? Perciò Dio ci lascia poveri e infelici, perché noi contaminiamo i suoi beni delicati, non sappiamo mantenere di noi l’opinione che avevamo prima, ma lasciamo che la nostra baldanza cresca o o diminuisca a seconda dei beni ricevuti o perduti. Ma questo cuore di Maria rimane saldo e uguale in ogni tempo, lascia che Dio operi in lei secondo la sua volontà, dalla sua azione non prende che una buona consolazione, gioia e fiducia in Dio. Così dovremmo fare anche noi; sarebbe il canto di un vero Magnificat.