Si incontra non di rado, nel filone della New Age, la convinzione circa una sostanziale
compatibilità tra questa corrente culturale e la religione cristiana, e l'opportunità di una
compenetrazione tra l'una e l'altra, non ultimo nella Profezia di Celestino di James Redfield,
uno dei più recenti "testi sacri" della New Age.
Non è tuttavia difficile, alla luce della riflessione, prendere atto del fatto che ci sono numerosi
elementi che si immettono come intralcio lungo la strada di quell'assimilazione di cristianesimo e
New Age, di cui qualcuno, un po' ingenuamente, parla; ci sono numerose questioni a cui il
cristianesimo dà risposte che sono, fino a prova contraria, ben lontane da quelle della New Age.
Innanzitutto, dov'è Dio? Nell'energia cosmica apersonale del Sé? Nelle visioni dello sciamano?
Nei poteri ultranormali dello yogi che riesce a stare dieci minuti senza respirare? Nelle ceneri sacre
di Sai Baba, che guariscono dalle malattie?
Lasciando da parte la questione inerente la veridicità di certe guarigioni, e ammettendo che
spesso le testimonianze su di esse siano vere, resta il fatto che per un cristiano Dio non è incastonato
in questi pur sempre materiali fenomeni.
Ci sono degli spettacoli della natura in cui si intravvede una sublimità che rimanda al mistero di
una Creazione, di fronte a cui anche un new ager può ammettere la realtà di un Principio
creatore.
Tuttavia, come disporsi di fronte a questo Principio creatore? Con l'abbandono che deriva dalla
fede all'uomo pio, che sa che il Principio creatore si disvela solo quà e là, in un barlume, secondo il
significato che aveva la parola a-lètheia (verità) nei pensatori greci presocratici, ossia
come un disvelamento nella natura di qualcosa, disvelamento, che restava tuttavia occultamento di
qualcos'altro, o con la frenesia dell'esploratore inquieto, che in fondo non si fida?
Vengo al Libro d'ore di Rainer Maria Rilke: in questa raccoltà lirica, un monaco russo
pittore di icone narra il suo itinerario spirituale attraverso le molteplici dimensioni dell'umano.
Anche se a volte il verso scivola nella leziosità a cui è esposta l'ispirazione poetica decadentistica
dell'epoca, la spiritualità che se ne coglie è, a mio avviso, intensa e toccante.
Vi è un passo in cui il monaco si rivolge a Dio con queste parole:
Potresti tagliare le vene alle montagne
a prova del tuo potere;
ma non ti interessano
i pagani.
Soffermiamoci poi sul corpo. In quale fisicità, in quale corporeità, si manifesta Dio? In una
mitica quanto improbabile "perfetta salute" del corpo nutrito con il bilancino, e magari con la
macrobiotica? Le pratiche "di lunga vita" conducono ad attingere il sacro?
Il medesimo Rilke dà voce, nel Libro d'ore (Parte II, Libro del pellegrinaggio), al
monaco che, lasciato il raccoglimento della sua cella, è partito pellegrino. Cosa vede il monaco?
Ecco:
Superammo uomini che ciechi
avevano fanciulli al posto degli occhi
e gente che beveva al fiume e donne
stanche e molte donne gravide.
E tutti m'erano stranamente vicini -
quasi fossi per gli uomini un parente
e per le donne un amico,
anche i cani che vidi mi seguirono.
Questa fisicità, questa corporeità dolente viene recepita dal monaco, uomo pio, con compassione,
e non con una compassione aristocratica e ritrosa, ma con la compassione che è figlia della
condivisione. Queste persone, con i loro corpi, esposti alla caducità e alla fatica, e spesso sofferenti,
sono un luogo per eccellenza della manifestazione del Cristo, uomo come noi, che ha condiviso con
gli uomini la sofferenza umana. In ogni uomo c'è un riflesso di Dio, in ogni volto c'è il riflesso del
volto dell'uomo Gesù, vero uomo e vero Dio, e tutto questo è gratuito: non c'è stato bisogno di
nessuna "pratica", di nessuna tecnica.
In un passo successivo (i pellegrini sono giunti alla mèta) il monaco assiste al loro penoso
risveglio mattutino. Ecco quello che i suoi occhi e il suo cuore vedono:
Mattino dei pellegrini. Dai duri
letti ove caddero quasi avvelenati
si leva al primo suono di campana
un popolo smunto e benedicente
infiammato dal primo sole;
uomini con la barba che si chinano,
bimbi che sbucano seri da sotto le pelli
e in mantelli, grevi del proprio silenzio,
le donne brune di Tbilisi e di Tashkent.
Cristiani coi gesti dell'Islam
si raccolgono intorno alle fonti,
tendono le mani come tazze piatte,
cose in cui l'anima fluisce come un'onda.
Chinano il viso e bevono,
aprono le vesti con la sinistra recando
l'acqua al petto come fosse un fresco
volto piangente
che parla dei dolori del mondo.
E questi dolori sono lì attorno
con occhi sfioriti: e non sai chi erano
e sono. Contadini o servi, forse
ricchi mercanti un tempo, forse
dei monaci deboli e peccatori
e ladri in attesa di tentazioni, fanciulle
facili che si rannicchiano tristi
e gente che s'è smarrita nel bosco della follia - :
tutti come principi che per un lutto
profondo hanno rinunciato al superfluo.
Tutto questo, per il cristiano, non è illusione, non è artificio di Maya, tutto questo è vero. Questa
povera gente è vera, e sono vere, e fondate, le loro pie speranze.
Sembra che per il new ager la ricerca di Dio (un dio a-personale) consista nel "fare
cose". Il cristiano crede invece che Dio ci chiama, perché è individuo, ha una coscienza e una
consapevolezza individuale, non è Energia impersonale. La coscienza individuale che abbiamo è a
immagine e somiglianza della Sua, e siccome ci ha fatto il dono del linguaggio, ci ha dato di
chiamarLo, e di parlarGli.
La New Age sembra tendere a guardare con fastidio, nel rapporto con Dio, alla dimensione della
verbalizzazione (notare bene: la recitazione dei mantra, sia detto con tutto il rispetto per questa
pratica, non è verbalizzazione ... ). Per mettersi in rapporto con Dio non c'è bisogno di fare tante
cose, basta parlarGli, come facevano alcuni millenni fà Adamo ed Eva, come facevano Abramo,
Mosè, Elia e tanti altri, e come faceva lo stesso Figlio con il Padre .... Non vorremmo sembrare
eccessivi, ma rinunciare alla fiducia nella lingua come via per incontrare Dio fa pensare ad una
celata e bizzarra forma di disperazione.
Dio ci chiama, dicevamo, e ci chiama perché ci ama: non c'è bisogno, lo ripetiamo, di tante
"pratiche", di guru, non c'è bisogno di acquisire poteri fuori dall'ordinario, basta andare da lui in
umiltà, in altre parole, consapevoli di essere quello che siamo e niente di più. E qui ci rivolgiamo
ancora a Rilke: il monaco descrive la scena di un misterioso vecchio e di un monaco infermo di
mente sul luogo del pellegrinaggio. Questa breve narrazione ha l'acutezza semplice e lapidaria di un
racconto Zen:
E si prostrò commosso.
Il vecchio sembrava dormire,
non lo vedeva, eppure i suoi occhi erano desti.
E si prostrò talmente
che gli tremarono le membra.
Ma il vecchio non se ne accorse.
Allora il monaco malato s'afferrò i capelli
e si gettò come una veste contro un albero.
Il vecchio era lì e non lo vedeva.
Allora il monaco malato brandì
se stesso come la spada di un boia,
colpì e colpì ferendo le pareti
per gettarsi poi a terra imbestialito.
Il vecchio guardava vago.
Allora il monaco si lacerò la veste
come fosse una corteccia
e la porse in ginocchio al vecchio.
Che s'avvicinò come a un bambino
dicendo dolce: sai anche tu chi sono?
Lo sapeva e gli si pose dolcemente
sotto il mento come un violino.
Il "monaco malato" era sprofondato nella follia per la sua hybris. Poco prima il poeta
aveva delineato la sua vicenda:
Spiccò in alto come se avesse le ali
e l'illusione d'essere più lieve
lo spinse a credersi un uccello.
Pendeva dalle sue magre braccia magro
come una marionetta sghemba
e pensava d'avere ali vastissime, e che il mondo gli scivolasse via
già da tempo sotto i piedi come una valle.
Che stupore quando di colpo
si vide cadere in un luogo ignoto
nel verde fondale marino del suo assillo!
Questa hybris, questa superbia, duole constatarlo, è propria di taluni approcci spirituali
prettamente New Age. Questa disposizione d'animo non è solo rischiosa (anche laddove non
implichi, per un'umana esistenza, le conseguenze devastanti che ha avuto per il "monaco malato")
ma rivela anche un'altro limite della New Age, ossia l'incapacità di cogliere la dimensione tragica
della natura umana, la sua intrinseca corruzione. Siamo vulnerabili all'Avversario, inclini alla paura,
all'avidità, all'invidia, all'omicidio ... «Tutti hanno traviato e si sono pervertiti; non c'è chi compia il
bene, non ce n'è neppure uno. La loro gola è un sepolcro spalancato, tramano inganni con la loro
lingua, veleno di serpenti è sotto le loro labbra, la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza».
Le notissime parole di San Paolo (Lettera ai Romani, 3, 12-14) non sono "fuori moda": la
nostra società è meno violenta che nei secoli passati, o rispetto ad altre realtà del mondo di oggi, ma
ciò non significa che la nostra natura sia migliore di quella di altri uomini e donne, di altri tempi o
di altre latitudini del mondo: lo dimostrano le pagine di cronaca dei giornali, ma lo dimostrano
anche le nostre meschinità quotidiane, apparentemente innocue. San Paolo lo sapeva, e sottolineava
che Dio guarda ai nostri cuori, alle nostre debolezze e malvagità represse, che tanto spesso ci
rodono internamente. Dio non guarda solo (né principalmente) alle cose che facciamo, o non
facciamo, ed è per questo che l'Apostolo si rivolge con queste ruvide parole a uomini
oggettivamente pii, e sul piano concreto non ipocriti (Lettera ai Romani, 2, 21-23): «ebbene,
come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu
che proibisci l'adulterio, sei adultero? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti glori
della legge, offendi Dio trasgredendo la legge?». Cos'ha a che vedere questa profonda sapienza del
cuore umano con la visione irenica dell'uomo che contraddistingue se non tutta, almeno una gran
parte della New Age?
Più vicina, in apparenza, a tale percezione della natura umana, può essere l'idea, di impronta
gnostica, e neoplatonica, della corporeità come realtà inferiore e degradata. Questa visione, (che nel
quadro gnostico si allaccia inevitabilmente all'idea di un "funesto demiurgo", una sorta di Dio del
Male che, inferiore a Dio, ha creato un universo imperfetto) è tuttavia parimenti contrastante con la
Rivelazione cristiana.
Quest'ultima allontana ogni disperazione: Dio ci ama, e ci aspetta. Occorre accorgersene, però ...
ma quando ce ne accorgiamo? questo è il punto: non quando ci mettiamo in fibrillazione per una
ricerca spirituale che ci dia il "possesso" di Dio, esaltandoci come il monaco che sprofonda nella
follia, e neppure quando ci rodiamo nella disperazione e nella rabbia per i nostri limiti, come il
monaco malato faceva prima della sua conversione, ma quando, come il monaco malato alla fine fà,
riconosciamo in tutta umiltà davanti a Dio la nostra intrinseca Povertà, e poveri come siamo ci
affidiamo alle Sue mani.