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Pace e croce in Lutero (articolo di Sergio Rostagno)

Pace e croce in Lutero (articolo di Sergio Rostagno)

Pubblico con piacere questa riflessione che il prof. Rostagno mi ha cortesemente inviato.


Tesi sulle indulgenze, 1517, tesi 92 e 93: Valeant itaque omnes illi prophete, qui dicunt populo Christi Pax pax, et non est pax. Bene agant omnes illi prophete, qui dicunt populo Christi ‘Crux crux’, et non est crux.

Vadano a spasso tutti i profeti che al popolo di Cristo dicono: Pace, pace, e pace non v’è; ben vengano tutti quei profeti che dicono al popolo di Cristo: Croce, croce, e croce non v’è.

Che senso hanno queste tesi? Il riferimento è una reminiscenza da Ezechiele 13, 10 e 16. Riferimento di Lutero, che noi già troviamo in una sua lettera (WA Br 1, lettera N. 17).

La lettera è datata al giorno del ricordo dei «Diecimila Martiri» (22 giugno 1516). Nel ‘500 le lettere sono datate alla fine con il santo del giorno, o con rimando alla domenica più vicina. La leggenda dei Diecimila martiri si riferisce alla crocifissione di diecimila soldati romani giustiziati in quanto cristiani. A parte il numero, che pare impossibile, l’episodio può essere reale. Non sono in grado di dare precisioni.

Lutero scrive a un Priore, Padre Michael Dressel (Priori Eremitarum Augustiniensium Novae Civitati [Neustadt]). Il detto Priore lascia correre e non interviene in un caso disciplinare. Insomma: cerca la pace. Non importa ora onestamente dire se questo Priore cercasse un accordo pacifico, oppure se veramente fosse una persona fiacca e indecisa. Lutero rimprovera al Priore di cercare solo la pace per sé, nel senso della tranquillità personale. E tiene una lezione sulla croce. Vari punti sono per noi interessanti.

L’argomentazione della lettera di Lutero inizia affermando: «La croce, infatti, rapidamente cessa di essere croce, appena tu lieto abbia detto: croce benedetta, fra i legni nessuno paragonabile» [Tam cito enim crux cessat esse crux, quam cito laetus dixeris: crux benedicta, inter ligna nullum tale]. La croce finisce di essere croce, già nel momento in cui tu inneggi alla croce, ecc. Ma in che senso?

Si parla di croce in senso trionfale (Savonarola ha scritto il Trionfo della croce, per esempio). La liturgia esalta spesso la virtù salvifica della Croce, ma – secondo Lutero – in senso opposto a una vera teologia della croce. Il seguito è più importante e complicato. Lutero afferma che la croce è invisibile. La croce appartiene al rango delle realtà nascoste e profonde della vita credente, allo stesso rango della pace. Questo è il secondo argomento che ora esaminiamo (righe 38-43).

Questa, infatti, si chiama pace di Dio, superante ogni percezione, nel senso che non si percepisce né sensorialmente né intellettualmente, né può essere pensata. Nessuna cogitazione la può né vedere, né comprendere, se non quella che si carica la croce volonterosamente e senza distinzioni, in ogni cosa che sente, pensa, comprende. La persona così vessata per contrasto fa esperienza di detta pace. Infatti, ogni senso, ogni azione, ogni cogitazione nostra [Dio] la pone costitutivamente sotto la pace sua. Ista enim vocatur pax Dei, exsuperans omnem sensum, hoc est, quod non sentitur, nec percipitur, nec potest cogitari; omms cogitatio non potesti eam videre et intelligere, nisi qui crucem libenter sustinet in omnibus, quae sentit, cogitat, intelligit, vexatus ille postea experitur hanc pacem. Nam omnem sensum, omne opus, omnem cogitationem nostram infra hanc pacem suam constituit.

Viene poi una seconda argomentazione (righe 40-49) che potremmo chiamare quella della sofferenza che il credente prova giornalmente. Riprendiamo l’intero passo:

Infatti, ogni senso, ogni azione, ogni cogitazione nostra [Dio] la pone costitutivamente sotto la pace sua. Dio la crocefigge (lo fa in pratica con varie e inquiete perturbazioni). Di conseguenza, si tratta qui di una pace sopra ciò che si prova; una pace altra rispetto a quella che noi mettiamo in scena e preferiamo – ossia molto migliore, incomparabilmente. La cercherai e la troverai nella misura in cui non la cerchi mai meglio che accollandoti perturbazioni con gioia, come sante reliquie, e non cercando pace e adottandola secondo la tua opinione e parere. [Nam omnem sensum, omne opus, omnem cogitationem nostram infra hanc pacem suam constituit, et cruci affixit (hoc est, variis et inquietis perturbationibus); ideo est pax supra sensum et alia, quam nos fingimus et optamus, – scilicet, multo melior, incomparabiliter. Hanc quaere et invenies, quaeres autem non melius, quam perturbationes suscipiendo cum gaudio, velut sanctas reliquias et non pacem quaerendo et eligendo secundum tuam opinionem et sensum].

La sofferenza quotidiana è per così dire una derivata (infra) rispetto al senso eccelso della pace e della croce. Essendo tuttavia, le sofferenze, concrete e evidenti, derivate dalla dimensione profonda della croce, appena sopra descritta, esse possono essere affrontate e vissute in modo positivo e non catastrofico.

C’è chi cerca la pace e perciò intende la croce come un lenimento che tranquillizza il credente. Non è la via giusta. Questa è la pace «che il mondo dà» (confronta Giovanni 14, 27).

La via giusta consta di tre livelli. In primo luogo, di un livello nascosto, ma costitutivo (constituit). Qui pace e croce convergono in profondità. Siamo oltre il pensabile, il ragionevole, il sentimento.

Nella atmosfera di questa superiore vera croce/pace ecco poi la necessità di scendere a un livello più concreto. Qui pace equivale a serenità nella sopportazione di angosciosi stati dolorosi fisici o psichici, che non mancano mai e ogni persona ben conosce, e che sono in relazione al suo impegno costruttivo. (Come vedremo, questa tribolazione nasconde la pace di primo livello, ma la nasconde per proteggerla!). Qui la persona conosce una elaborazione delle sofferenze a partire da una dimensione di primo livello in sé positiva, detta pace-croce. Tuttavia, ciò accade nel momento in cui la persona si impegna per una causa importante e non cerca tranquillità per sé.

Questo è il terzo livello.

Non è vera pace né vera croce quella che sta fuori della mischia. È invece nel conflitto che si attua la pace della croce. Perché la situazione di conflitto è indispensabile e decisiva? Lo spiega l’insieme.

Non si parla qui di stadi successivi di esperienza che si provano in successione uno dopo l’altro (come talvolta nel platonismo corrente), ma di implicazioni di un continuo darsi del fatto stesso nell’incrocio tra costituzione e esperienza. Non si procede da sotto in su, ma da sopra in giù. Nella falsa esperienza scompare la croce; nella vera croce si trova la pace, non come il mondo la dà, ma come Dio la dà. Dio nasconde la vera pace sotto le esperienze (o apparenze) contrarie, al fine di difenderla! Il pensiero umano autentico (non quello fabbricato per i propri interessi) si nutre di una tensione non risolta. Su questo vedi oltre.

Quale è dunque il significato reale della croce per il credente? Dove c’è lotta, la pace è più vicina, mentre chi cerca la pace subito non riesce a trovarla, oppure abbandona la croce.

La distinzione di questi tre livelli è tipica del pensiero di Lutero. Egli combatte la loro confusione, perché nella loro confusione il fedele ritrova sempre soltanto se stesso e il proprio augurarsi che si verifichi quanto pensa che debba avvenire e prodursi. Qui Dio diventerebbe il domestico, che esegue quel che il signore (l’uomo) gli chiede.

Questi livelli non vanno confusi, altrimenti succederebbe che il sensibile, la cogitazione umana, riprodurrebbe il significato della croce e il fedele ne diverrebbe il regista, dicendo a se stesso quanto si augura sia detto e succeda. Occorre pregare, invece, nella fiducia e non perché si avveri il proprio desiderio. Argomento tradizionale. Una critica e una visione della preghiera di tipo agostiniano. Tuttavia, la tesi è importante. Qui l’essere umano non viene più visto a partire da una dimensione ecclesiastica o metafisica, ma come posto in diretta presenza di un messaggio costitutivo. Non ha a che fare in astratto «con Dio», ma con l’opus alienum e l’opus proprium di Dio. Per questa distinzione vediamo il Sermone del 21 dicembre 1516, WA1, 112s.

L’opus alienum di Dio annulla le pretese umane di avere riconoscimento divino per i propri atti devozionali e quindi farli passare per buoni davanti a Dio. L’opus alienum è legato alla Croce. La Croce qui distrugge tutte le volontà umane e gli atti che ne derivano, atti che l’uomo porta all’approvazione di Dio chiedendo il suo favore (se non addirittura ringraziandolo per l’approvazione). La risposta di Dio è la distruzione di tali atti. Segue tuttavia subito l’opus proprium cioè l’opera propria di Dio che è quella della resurrezione. Questo doppio apparato strategico sostiene ogni impegno teologico di Lutero e costituisce la spina dorsale dei suoi sermoni. Sarà l’oggetto anche di molte obiezioni dei diversi teologi o umanisti che si fanno avanti contro le idee del Lutero. Ma anche di molte rielaborazioni filosofiche e teologiche in tempi recenti in positivo.

La Croce qui rappresenta l’opus alienum di Dio, mentre la resurrezione, rimarchiamolo, rappresenta l’opus proprium. In questa luce è vero che l’uomo vede annullata ogni pretesa di saldare direttamente alla luce divina le proprie virtù e imprese. È però anche vero che insieme, l’uomo risorge e viene visto in una luce nuova e incomparabile. In tale luce l’uomo riceve la libertà. È soltanto a costo di una negazione totale che si può poi parlare di un nuovo inizio dell’uomo. Così liberato, l’uomo non è più in debito di nulla (sermone del 21 dicembre) e può, se necessario creare in modo indipendente le regole che governano l’esercizio della sua libertà. Libertà, la quale, ripetiamolo, ha inizio autonomo e incontrovertibile dall’opus divino, che non si consuma, non invecchia, non si attenua per nessuna ragione. Kant dirà che il senso del dovere è per l’uomo l’unica ricchezza che gli appartiene intimamente. Lutero ragiona in altro modo e in periodi burrascosi della storia i suoi argomenti offrono un piano di discorso non meno interessante.

Come abbiamo già visto la Croce manifesta l’opus alienum di Dio nel primo livello. Che accade ora nella vita nuova, nel corso della vita cristiana? Qui la croce si applica a ogni dolore e assume per sé ogni ombra o risvolto negativo della vita umana. Gli aspetti negativi dell’esistenza nascondono radicalmente il dato positivo, in modo che il fondamento divino della nuova vita resti indenne e limpido! Questa è un’idea paradossale che Lutero sostiene in modo rigoroso. La nuova vita è autentica, ma nascosta. Ciò che appare alla vita e all’esperienza semplice è il contrario, cioè la tribolazione, ossia la Croce. Ma questo aspetto contrario protegge la autenticità della Croce quale primario atto divino in favore dell’uomo. Nel corso sulla Lettera ai Romani (1516; ad Rom 9,3 per es.) questa idea è riaffermata. Allora qualcuno potrebbe dire: questa costruzione è puramente teorica; nella pratica non conta.

Secondo la regola del neoplatonismo cristiano non esiste una circostanza di principio (qui la pace-croce) che non abbia riscontro pratico, salva la loro differenza (Agostino, Leone I, Benedetto da Norcia, Lutero). La distinzione dei due livelli attribuisce a quello più alto un valore costitutivo e a quella inferiore (infra) il senso di esercizio (o di servizio) umano di elaborazione fiduciosa. La pace «che Dio dà» – non «quella che il mondo dà» – è dunque autentica non tanto in quanto è tranquilla mancanza di preoccupazione; al contrario, è pace in quanto vive le sofferenze conservando una sorgente sempre pura alle spalle. Lutero adotta questo paradosso, affermando che, appunto in quanto paradosso, non può essere spiegato. L’essere così forti da non essere scossi da eventi del mondo, diventa bersaglio dei suoi rimproveri e sarcasmi. Come abbiamo già detto, questa tesi si riflette sul pensiero umano. Il pensiero moderno non rifiuta la proposta e anch’esso, infine, si nutre di una tensione non risolta. Nello stesso tempo, esso impara a non essere travolto dagli eventi del mondo.

Chi si affida alle proprie certezze vacilla, mentre non vacilla chi si affida a Cristo. Su questo leggiamo nelle Resolutiones (il commento scritto da Lutero alle sue 95 Tesi nel 1518 [edizione italiana a cura di P. Ricca] ): Chi, infatti, per altra via cerca la pace, per esempio interiormente per pura esperienza, costui certamente sembra tentare Dio e voler avere pace in fatto, non in fede. Tanto tu avrai la pace, quanto crederai alla parola della promessa: chiunque assolverai ecc. [Matteo 16,19]. La pace nostra è Cristo, ma in fede. Se infatti costui non crede a quella parola [a quella promessa] anche se mille e mille volte fosse assolto dal Papa stesso e credesse a tutto il mondo, mai troverà pace. [Mia traduzione] Qui vero pacem alia via quaerit, utputa experientia intus, hic certe videtur Deum tentare et pacem in re, non in fide velle habere. Tantum enim habebis pacem, quantum credideris verbo promittentis : quodcmnque solveris &c [Matteo 16,19]. Pax enim nostra Christus est, sed in fide. Quod si quis huic verbo non credit, etiam si milies milies absolvatur a Papa ipso et toti mundo confiteatur, nunquam erit quietus. (Resolutiones [1518] WA 1, 541, 5-11).

Certo l’incertezza fa ancora parte della certezza. Questa, di per sé, è una regola importante del pensiero. Senza questa regola il pensiero diventa pericoloso.

Anche per Lutero la prova della fede sta nella Anfechtung, nella prova, e quindi nell’incertezza. Per lui anzi proprio l’incertezza materiale è la prova che stiamo nella fede, per così dire. Ma non è la fede che diventa «incerta» (che sarebbe, quasi una bestemmia, nei termini del Cinquecento riformato). È appunto la fede che affronta l’incertezza della vita quotidiana. La vita umana è confusa. A un certo momento ci accorgiamo che i nostri sogni non si sono avverati, che l’ideale non si verifica, che talvolta occorre sapersi accontentare del compromesso. Altre volte le cose peggiorano drammaticamente. Ma proprio a questo punto chi vive si aggrappa alla fede e non alle realizzazioni che dipendono solo dalle condizioni reali e dalle nostre forze. Perciò non dite dai pulpiti che la fede vive nel dubbio. Vivete nel dubbio voi, voi che avete mescolato le vostre opere alla fede. Le mille domande della vita quotidiana espongono al dubbio chi vuole avere sempre ragione, mentre la fede (fides Christi) entra decisamente nei problemi e suscita la ricerca di risposte valide.

Così ci troviamo davanti al triplice significato della pace e della Croce. Oltre la negazione iniziale, che distrugge le pretese umane di aver ragione (opus alienum), oltre la copertura, che nasconde l’intervento salvifico di Dio (opus proprium) sotto apparenza contraria (la croce, la tribolazione), ci sarà un terzo importante elemento derivato: la Croce qui prende l’aspetto del travaglio della vita credente nei suoi aspetti quotidiani di lotta e impegno. La pace è rispettivamente, nei tre casi, stato di quiete risultante dalla fede, alternativa nascosta, rispetto ai disastri del mondo mal governato, infine ricerca concreta di realizzare tale alternativa. Fin qui Lutero. In tale quadro, si potrà ricordare anche la raccomandazione apostolica: siate in pace, oppure fate la pace, con tutti (il verbo greco eireneuein).

Tutto il discorso è in realtà «costitutivo» o per meglio dire «strutturale».

Chi vuole può riprendere gli stessi pensieri in Calvino.

Ecco dunque spiegato il senso della frase: croce, croce, ma croce non v’è.

[S. Rostagno, giugno 2025].


SERGIO ROSTAGNO ­- già docente di Teologia sistematica presso la Facoltà valdese di Teologia (Roma) e professore ospite presso la Facoltà teologica protestante di Yaoundé (Camerun) nel 1985-1986. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo La scelta. Ciò in cui credi e la norma che ti dai (Claudiana, 2009); Doctor Martinus. Studi sulla Riforma (Claudiana, 2015); Le tesi De homine di Lutero (Claudiana, 2019); Martin Lutero, Il Credo a Smalcalda (1537), traduzione e commento di S. Rostagno (Doxa Editrice, 2021).

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