Unità non vuol dire uniformità

INTERVISTA A PAOLO RICCA

Paolo maestro di “ecumenismo”

a cura di Luca Baratto

Roma, 6 maggio 2009 (NEV) – Si svolgerà a Siracusa il 7 e l’8 maggio il IV Convegno ecumenico italiano. Organizzato dalla Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della CEI, dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e dalla Sacra Arcidiocesi ortodossa d’Italia ha per titolo “Guai a me se non annuncio il Vangelo. Cattolici, ortodossi ed evangelici davanti a Paolo”. I lavori saranno aperti da mons. Vincenzo Paglia, presidente della Commissione ecumenismo e dialogo della CEI, da Domenico Maselli, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e da mons. Siluan, vescovo per l’Italia della Chiesa ortodossa di Romania. Sono previsti gruppi di lavoro in cui si discuterà di immigrazione, diritti umani, ambiente e povertà. Il convegno prevede anche una visita ai luoghi della memoria paolina a Siracusa e una preghiera ecumenica nella cattedrale della città. In conclusione lo spettacolo teatrale “L’uomo di Tarso”, di Jobel Teatro. Le relazioni saranno a cura del teologo valdese Paolo Ricca, di mons. Mariano Crociata e dell’archimandrita padre Evangelos Yfantidis. Abbiamo intervistato il professor Paolo Ricca.

Da quanto emerge nei suoi scritti neotestamentari l’apostolo Paolo si è sempre speso per l’unità della chiesa di Cristo. Paolo e l’ecumenismo: un accostamento felice?
L’accostamento è senz’altro felice, anzi è dovuto. Paolo infatti non è stato solo il più grande apostolo, il più grande teologo e il più grande missionario della Chiesa antica (e forse di tutti i tempi), è stato anche il più ecumenico di tutti gli apostoli. Possiamo anzi dire che Paolo ha posto le basi di quella che nella storia della Chiesa è stata l’idea ecumenica e dello stesso movimento ecumenico moderno. I passi biblici fondamentali che lo hanno generato e continuano a ispirarlo sono quasi tutti tratti dalle lettere di Paolo (tranne Ezechiele 37 e Giovanni 17). Certo, si può porre la domanda: Ma non è anacronistico parlare di “ecumenismo” nel tempo apostolico? Non si rischia di proiettare nel 1° secolo temi e problemi del nostro tempo, che allora non c’erano? No, questo rischio non c’è. Proprio il secolo apostolico ha vissuto tutta una serie di problemi che non possiamo qualificare altrimenti che “ecumenici”. Paolo li ha affrontati, e le sue proposte sono di valore permanente e di attualità assoluta.

La situazione del cristianesimo contemporaneo è senz’altro diversa da quella dell’epoca di Paolo. In che cosa l’apostolo può ancora esserci maestro per quel che riguarda la ricerca dell’unità tra cristiani?
A solo titolo di esempio, indico tre questioni ecumeniche aperte sulle quali Paolo può esserci maestro. 1) I rapporti tra Chiesa e Israele. È oggi ancora, come nel 1° secolo, il vero problema ecumenico, anche se le Chiese stentano a rendersene conto. Paolo lo affronta in tre capitoli fondamentali della lettera ai Romani (9,10,11), nei quali dà delle indicazioni precise che la Chiesa ha sostanzialmente ignorato fino ai nostri giorni. Il divorzio tra Chiesa e Israele, consumatosi nel 2° secolo, è stato fatale sia per la Chiesa, sia per la Sinagoga. Si tratta oggi, almeno per la Chiesa, di ripartire da Paolo e cominciare a fare, con duemila anni di ritardo, quello che egli dice in Romani 9,10,11. 2) L’affermazione di Galati 3,28 (“In Cristo non c’è più né maschio né femmina, ecc.”) pone il problema ecumenico cruciale, oggi come allora, del rapporto tra l’unità della Chiesa e l’unità dell’umanità. La prima è in funzione della seconda. In fondo quel che sta più a cuore a Dio non è l’unità della Chiesa, ma l’unità della famiglia umana. Oggi il nesso tra queste due unità è troppo poco sottolineato. Paolo può insegnarci a riprenderne piena coscienza. 3) Nelle Chiese da lui fondate, Paolo a un certo punto ha indetto una colletta a favore dei “santi di Gerusalemme”, cioè dei cristiani di quella città. Il prof. Oscar Cullmann la definì “colletta ecumenica”. Perché? Perché tra le Chiese fondate da Paolo e la “Chiesa-madre” di Gerusalemme c’erano notevoli divergenze teologiche su questioni tutt’altro che secondarie, come ad esempio questa: i pagani convertiti al cristianesimo devono essere circoncisi, come sosteneva Gerusalemme, oppure no, come sosteneva Paolo? Con la colletta Paolo voleva affermare che divergenze teologiche anche serie non dovevano impedire la comunione fraterna: si può essere uniti pur essendo diversi, se uniti nella fede nell’unico Signore Gesù. Unità non vuol dire uniformità. Anche questo è un insegnamento attualissimo.


Paolo viveva in un mondo cosmopolita contraddistinto dalla pluralità di fedi, religioni e filosofie. Cosa penserebbe della fatica dei cristiani di oggi ad affrontare le società multiculturali che caratterizzano la nostra epoca?
Paolo stesso era un prodotto, se così si può dire, dell’incontro tra due culture, quella ebraica e quella ellenistica. Pur essendo ebreo e cittadino romano, non scrive né in ebraico né in latino, ma in greco. Egli confessa di essersi adattato “a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni” (I Corinzi 9,22). L’impero romano, in fondo, era ecumenico, accogliente e tollerante, purché non si mettesse in discussione il primato di Roma e il culto dell’imperatore. Credo che ai cristiani di oggi che fanno fatica ad affrontare le società multiculturali, Paolo direbbe: La multiculturalità è positiva e quindi va affrontata con fiducia e libertà interiore, a una condizione: che si abbia chiaro il centro di tutto, che è Cristo Gesù, e ci si tenga saldamente ancorati a lui.

Il protestantesimo ha da sempre un rapporto particolarmente stretto con l’apostolo. Si può dire che è dalla riflessione sui suoi scritti, a partire dalla giustificazione per fede, che nasce la Riforma protestante?
Sì, il protestantesimo è stato un revival di paolinismo nell’esperienza di fede e nella teologia di una parte della cristianità del Cinquecento e dei secoli successivi. Anche Agostino si era convertito leggendo Paolo e precisamente Romani 13,13-14, come racconta nelle Confessioni (VIII,12). Lutero invece si è convertito meditando a lungo e a fondo su Romani 1,17 e in particolare sull’espressione “giustizia di Dio”, che all’inizio Lutero odiava perché la intendeva in senso distributivo, di un Dio cioè che premia i buoni e punisce i cattivi, e poi divenne per lui “dolcissima” e addirittura “la porta del paradiso” quando capì che la giustizia di Dio non è quella che egli chiede al peccatore, ma quella che egli gli dà, giustificandolo in Cristo. Anche nel Novecento il protestantesimo è stato energicamente richiamato al pensiero di Paolo attraverso il commento di Karl Barth alla lettera ai Romani. E l’”anno paolino” indetto quest’anno dalla Chiesa cattolica è stato per molti un’occasione per riprendere contatto con questo apostolo che, benché chiami se stesso “il minimo degli apostoli” (I Corinzi 15,9) e benché non abbia conosciuto il Gesù storico, è stato senza dubbio il suo discepolo più fedele e il suo interprete più congeniale.

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