La fede, un paradosso?

di Giorgio Ruffa


E, verso l’ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lamà sabactàni?», cioè: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Le ultime parole di Cristo sulla croce rappresentano l’esperienza peggiore che l’uomo possa concepire: l’assenza di Dio, anche se solo apparente. L’enormità di tale abbandono è ingigantita dalla figura del Cristo. Ma queste parole, che appartengono al Salmo 22, sottolineano con forza anche il legame di fede espresso dall’intercalare “Dio mio”.

Da notare che le versioni degli evangelisti non concordano pienamente: solo Matteo e Marco (15,34) riportano questo grido angosciato, Luca riporta il più fiducioso «Padre , nelle tue mani rimetto lo spirito mio» (23,46), mentre Giovanni, per sottolineare la veridicità delle profezie messianiche, chiude con «Tutto è compiuto» (19,30). Gli evangelisti concordano nell’attribuire alla folla l’incredulità: «salvi se stesso», «scenda ora giù dalla croce, e noi crederemo in lui», «il popolo ed i magistrati si beffavano di lui», sono le frasi ricorrenti.

Riassumendo, in questo quadro tragico abbiamo una lotta tra fede e ragione: la fede di Cristo, addirittura in una situazione d’abbandono, e l’incredulità della ragione da parte degli astanti. Nel celebre quadro di Hieronimus Bosch «Il Cristo portacroce» l’unica immagine serena, quasi trascendente il quadro, è quella di Gesù, l’umanità che lo circonda è deforme, grottesca (alla maniera di Bosch) ad immagine del peccato. La fede quindi trascende il sensibile, è un deciso passaggio dalle certezze, effimere, del mondo sensibile al baratro oscuro della divinità dove tutto dipende da Dio e non da noi. Cosa quindi inconcepibile dalla ragione. Quindi chi scherniva Cristo sul calvario apparteneva al «mondo» e soprattutto al peccato, solo chi aveva avuto il dono dello Spirito comprendeva quale evento stava compiendosi. Kierkegaard usa la parola “scandalo” per definire l’incomprensione della ragione dinanzi al Golgota.

La fede, forse, è tra i doni di Dio il più difficile da comprendere. La fede non è quantificabile: gli apostoli dissero al Signore: «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senape, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe. (Luca 17, 5-6).

La fede è atto di volontà, mentre il dubbio che l’intelletto pone si basa sull’esperienza razionale sensibile. Ora siamo di fronte ad un classico problema filosofico: chi ha la precedenza? L’intelletto o la volontà?

Volontà è definita da Aristotele come «appetizione che muove in conformità a ciò che è razionale» (De An., III, 10, 433a 23). La volontà come appetito razionale rimane il concetto fisso anche nella Scolastica. E tale rimarrà anche se letto da angolature diverse nel criticismo e nell’idealismo. Ma che cosa c’è di più irrazionale della fede? Come può la volontà essere mossa da un che d’irrazionale? Seguendo Lutero la spiegazione diviene relativamente semplice: la volontà in stato di peccato diviene «noluntas» e l’intelletto si piega su di sé, «curvitas», a contemplare il sensibile. In questo stato nessun atto della volontà può volgersi a Dio. In questo circolo vizioso non c’è alcuna via d’uscita che l’uomo possa aprire, è necessario un aiuto esterno: la gratuita «grazia» divina esplicata dalla fede.

La lotta tra fede e ragione non è contraddittoria, ossia non lede il PDNC (principio di non contraddizione) in quanto i termini non afferiscono al medesimo rispetto, ma è un antagonismo tra due forze diverse in opposizione reciproca. Il traguardo quindi, nella vita pratica ossia terrena, è rappresentato dall’equilibrio di queste forze.

La celebre frase “Il giusto vivrà di sola fede” può essere parafrasata come “Il giustificato vive di sola fede”. In quanto la fede è l’anello matrimoniale (immagine di Lutero) che lo lega a Cristo. Non è perché noi crediamo ad una dottrina (nostro merito) che ci rende giusti, ma è perché siamo stati resi giusti dal sacrificio di Cristo che noi abbiamo fede, altrimenti la volontà non avrebbe potuto smuoversi. Quindi tutto è proveniente da Dio.

La ragione tanto bistrattata da Lutero non è altro che il legame con un mondo terreno lontano da Dio; l’uomo ha abbandonato Dio e non viceversa. La fede trascende il sensibile in modo radicale: bisogna nascere di nuovo, bisogna annichilire se stessi, in senso relativo, ma la forza e la capacità per compiere questo difficilissimo passo, come si è detto, non è assolutamente in noi. Quando l’intelletto sarà specchio, classica parafrasi tratta da 1Co13,12, di quello divino allora la volontà potrà muoversi, veramente libera, nella rettitudine e nella fede.

Ma possiamo sempre parlare di una fede salda e radicata in Cristo? Infatti qualcuno potrà obiettare: nessuno possiede una simile fede. In effetti l’uomo è tormentato dal paradosso paolino di voler compiere il bene, ma, nella pratica, agire male (Romani 7) vivendo quindi un paradosso esistenziale. La stessa cosa avviene nella fede, ma come l’uomo giustificato è «simul iustus et peccator» è anche in bilico tra fede e dubbio. Questa condizione esistenziale fa parte della nostra natura ancora peccaminosa: la fede pur oscillando rimane salvaguardata dal sacrificio di Cristo.

Non è importante quanta fede abbiamo, ma è importante come Dio ci considera. Quindi la fiducia nel suo atto liberatorio non può essere eliminata. Nessuno può considerarsi perfetto, Paolo lo sa bene quando dice: «Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. [13]Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro» (Fil 3, 12-14). Ed affidarsi alla fede in un certo senso è proprio questo: abbandono del passato e affidarsi al mistero, il futuro è sconosciuto agli uomini, divino, appunto il «salto della fede» di Kierkegaardiana definizione. Concetto che Lutero aveva magnificamente anticipato in un sermone datato 30 novembre 1516: «La fede unisce l’anima all’invisibile, l’indicibile, l’eterna ed inimmaginabile parola di Dio, e al tempo stesso la separa da tutto ciò che è visibile e tangibile».

Per concludere, mi sia concessa una piccola parentesi accademica. Un filosofo veneziano, contemporaneo, vede nella fede proprio un assurdo, in quanto non stabile e basata sull’annichilimento, in quanto la volontà volendo salvare se stessa si trasforma in volontà di potenza che ha come fine la trasformazione del mondo in altro da sé, ma seguendo Mat. 10,39 chi vuole realizzare il proprio fine rinuncia alla propria essenza assoluta, che, detto in altre parole, indica una posizione nichilista (mi rendo conto di ridurre drasticamente delle argomentazioni molto più ben sottilmente formulate, ma qui sto solo facendo un esempio). Ma l’Essere, in senso ontologico, non è messo in discussione esso permane sempre. Lo sfondo possiamo chiamarlo Dio e la necessità dell’apparire può essere rapportata alla sua volontà, che non può essere discussa. Dio vuole che le cose siano, e non che non siano.

L’Essere è salvaguardato in Dio, e tutto ciò che da lui proviene è sempre emanazione dell’Essere. In termini scolastici Essere ed Esistenza coincidono in Dio. Il nulla, anche se non pensabile, può essere, con Platone (Sofista), considerato relativo. Per esempio: “questa scatola è verde e non rossa” non rende nullo il colore rosso che potrà afferire ad altro oggetto. Il PDNC (principio di non contraddizione) vale in senso assoluto per Dio, in quanto la sua contestuale contraddizione annichilirebbe l’Essere, mentre ciò che procede dall’Essere supremo può affrontare una contraddittorietà relativa. Rimane il problema della creazione ex nihlo, ma questo nulla non potrebbe essere relativo? Sappiamo che la materia non è altro che energia, ciò che ci appare, ai sensi, solido non è altro che un amalgama di forze. Ma a noi è del tutto sconosciuta l’essenza divina Dio, possiamo solo ragionare per analogie. Il mistero non può dirsi risolto né dagli scienziati, né dai teologi e né dai filosofi. La fede abbandona questo mondo e quindi non ha altro oggetto che Dio, tali argomentazioni, quelle terrene, non possono aiutare.

A questo punto si tratta di scegliere, se Dio ce lo permette. Certamente il mondo che ci offre Dio è molto più attivo e ricco di speranza e di «gioia» di un mondo parmenideo imperniato su di una sorta di destino greco, poiché paralizzato da un limite saldissimo: il PDNC. Ma possiamo noi, con la nostra ragione imperfetta, limitare Dio? Questo rischiamo di farlo ogni qualvolta presentiamo un nostro merito, infatti «[…]ogni nostro merito è in noi solo l’effetto della stessa grazia. Quando Dio premia i nostri meriti non fa che premiare i suoi benefici» (Agostino, Lettere 194, 5, 19). Certo, la visione protestante nega il libero arbitrio, ma lo fa in relazione ad una ben determinata soteriologia (dottrina di salvezza). Ma credo che il filosofo a cui mi riferisco non sia contro Dio in sé, ma contro certe rappresentazioni dogmatiche di Dio.

Comunque non preoccupiamoci più di tanto di queste dispute terrene e pensiamo alle cose più importanti: «Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie. Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. E’ in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà.» Colossesi 2, 6-10

Bene, per ora mi fermo qui. Indico come al solito una piccola bibliografia per chi voglia approfondire l’argomento.

ATKINSON James, Lutero: la parola scatenata, Torino, Claudiana, 1992 (2 Ed.), («Ritratti Storici»).
McGRATH E. Alister, Il pensiero della Riforma, Torino, Claudiana, 1995 (2 Ed. riveduta ed ampliata), («Piccola biblioteca teologica», 24).
McGRATH E. Alister, Le radici della spiritualità protestante, Torino, Claudiana,1997, («Piccola biblioteca teologica», 42).
LUTERO M., La lettera ai Romani, a cura di Franco Buzzi, Milano, Edizioni Paoline, 1991, («I Classici del pensiero cristiano», n. 7).