La zizzania atea del pensiero moderno

Giorgio Ruffa

Ovvero, il cristianesimo pelagiano.


Sebbene il Pelagianesimo sia stato condannato nel 529 dal sinodo d’Orange, esso sopravvive sino ai nostri giorni camuffato nelle più disparate correnti filosofiche, per non parlare del mondo cristiano in tutte le sue espressioni confessionali. L’aspetto filosofico sarebbe interessante da studiare nel suo cammino, ma questo esula dai fini di questo articolo. Una chiave di lettura filosofica può essere data, per esempio, dall’analizzare quanto una determinata corrente di pensiero si focalizzi sull’uomo a scapito di Dio o della trascendenza. Nella storia del pensiero questo spostamento di livello è stato inesorabile: dalla teologia in senso forte sino alla morte di Dio. In epoca moderna, forse, il movimento che forse ha accentuato quest’aspetto è stato , per certi aspetti, l’esistenzialismo. Comunque possiamo tranquillamente partire da Cartesio e nominare, di seguito, in modo incompleto, a titolo di traccia, Locke, Hume, Rosseau, Kant, Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, Sartre, Freud, Barth, Bultmann, Malthus, Huxley etc. A quanto pare, visto che tutti i più grandi pensatori, filosofi e non, sono stati citati sembra che sia stata proprio l’epoca moderna la più grande nemica di Dio, almeno nel senso inteso da Lutero, e forse, analizzando la secolarizzata società contemporanea, sembrerebbe molto facile dirlo. Questa annotazione è sicuramente carente e discutibile, in quanto è da contestualizzare e da analizzare nei singoli momenti, va quindi considerata semplicemente come una proposta, si spera futura, d’approfondimento. Ora, mi limiterò ad una breve annotazione.

Personalmente, come ho anticipato, vedo nel pensiero moderno il trionfo del Pelagianesimo, che come estremo esito risulta essere una forma d’ateismo, in quanto pone l’uomo arbitro del proprio destino, riducendo Dio ad una specie di contabile delle buone opere. Questo pensiero ha emancipato l’uomo da tutto ciò che poteva essere d’ostacolo alla propria volontà di potenza. Massima espressione dell’uomo schiavo del peccato: essere come, o superiore, a Dio. Il pensiero moderno ha costruito una serie di Torri di Babele, nella teologia e nella filosofia, il cui unico fine è giustificare le proprie ambizioni di controllo della realtà.

Partendo da pensatori, apparentemente “positivi”, possiamo vedere i semi di questa zizzania ideologica. Ad esempio, Rousseau ha visto nell’uomo primitivo, “il nobile selvaggio,” come superiore all’uomo “civilizzato”. Rousseau ed i suoi seguaci hanno cominciato a giocare con la ragione, e hanno visto le limitazioni malvagie della civiltà: “L’uomo è nato libero, ma dappertutto è in catene!” Rousseau ha visto nel “primitivo” la libertà innocente, autonoma e finalisticamente buona. Il problema del peccato originale non è coinvolto. Dobbiamo, comunque, comprendere che la libertà difesa da Rosseau non era la libertà dell’uomo giustificato da Dio, ma libertà da ogni genere di limitazione contingente: libertà di cultura, libertà da qualsiasi autorità, una libertà assoluta dell’individuo, una libertà, quindi, nella quale l’individuo è il centro dell’universo.

Immanuel Kant, ha definito in Was ist Aufklärung, nel 1784, l’illuminismo come quella cultura che ha la forza di emancipare, attraverso la ragione, l’uomo e farlo uscire da un’immaturità intellettuale nella quale si era fissato. E’ facoltà dell’uomo, per Kant, pensare autonomamente senza contare sull’autorità della chiesa, della Bibbia, o della filosofia. Nessuna generazione dovrebbe essere limitata dal credo e dai dogmi delle età passate. Per Kant, questa limitazione sarebbe stata un’offesa contro la grandezza della natura umana, il cui destino procede per successivi progressi in avanti. Come sappiamo, lo sforzo teoretico di Kant, mirava a stabilire gli esatti strumenti gnoseologici su cui si poteva contare con certezza, portando ad un drastico cambiamento del concetto antico di metafisica. Egli lavorò anche per liberare la scienza e la filosofia dallo scetticismo. Kant ha rimosso la concezione e la struttura della realtà dal loro luogo precario di in un mondo problematico esterno e separato, in un certo senso, dalla mente umana. La sua rivoluzione copernicana ha posto l’uomo al centro della scena. La conoscenza viene ordinata in modo soggettivo, ed il soggetto diviene l’unica condizione per la percezione dei fenomeni. La ragione domina gli eventi esterni attraverso le proprie strutture (le forme pure della sensibilità spazio e tempo, categorie, schemi etc. etc.) e la funzione dell’intelletto, tramite il giudizio, è quello di unificare i dati (connettere soggetto e predicato) che provengono dal processo gnoseologico esaminato, nella Critica della Ragion Pura, dall’analitica trascendentale. E’ comunque chiaro che il dato esterno è comunque “informato” da una sintesi a priori. Detto banalmente, noi possiamo conoscere la nostra sintesi della realtà non quella che è in sé (Ding an sich).

La prima vittima di questo pensiero è proprio Dio. Ciò che noi conosciamo è possibile non attraverso Dio, non dalla penetrazione della mente nella verità, ma dalle proiezioni delle mente su quello che possiamo conoscere intorno ad un mondo essenzialmente inconoscibile. Kant ha messo Dio, l’anima, la libertà morale nel regno delle cose in sé. Se da un certo punto di vista Kant compie un positivo ridimensionamento delle facoltà della ragione, dall’altro getta i semi di un ateismo esasperato, ponendo l’uomo come centro del discorso gnoseologico.

Ma, come in tutte le opere diaboliche, il Pelagianesimo si nasconde anche nelle correnti di pensiero che apparentemente nascono come apologie del Cristianesimo. Sicuramente influenzato da Kant, e negativamente da Hegel, troviamo questi semi pelagiani in Søren Kierkegaard, il teologo danese che con il suo pensiero gettò le fondamenta del moderno esistenzialismo. Ha visto in Dio il significato ultimo dell’esistenza umana, ma in un modo che non riesco a definire cristiano. Egli, detto sommariamente, affermava che ciascuno individuo, ossia il singolo, deve scegliere, consciamente e responsabilmente, fra lo stadio estetico, etico e religioso. Già da questo cominciamo ad avere qualche dubbio. Kierkagaard, letteralmente seduce con le sue descrizioni dei vari stadi della vita. Ma credo che in realtà rappresentino una semplice, ma geniale, descrizione della vita, non uno strumento per muoversi in essa: questa è l’illusione di un’umanità veramente schiava delle passioni. In effetti, sotto la legge, viviamo perennemente nello stadio estetico. La storia dei conflitti umani, dimostra quanto nell’uomo sia presente un male radicale che abbrutisce anche il sublime ideale di servire per la gloria di Dio. L’autocoscienza non è un movimento che nasce in sé, ma dipende, a mio parere, da qualcos’altro, che, parafrasando Tommaso, possiamo chiamare Dio.

Kierkegaard vuole disperatamente salvare la soggettività, altrimenti, si cadrebbe nel fatalismo (Cfr. Briciole di Filosofia), ma non si rende conto, che il servo arbitrio non coincide con il fatalismo? Tutto ciò che facciamo di bene proviene dalla grazia e non da noi: “Quale è dunque il merito dell’uomo precedente alla grazia, in virtù del quale possa riceverla, dal momento che ogni nostro merito è in noi solo l’effetto della stessa grazia? Quando Dio premia i nostri meriti non fa che premiare i suoi benefici” (Agostino, Lettere 194, 5, 19. PL 33, 880).

Il rapporto tra il singolo e Dio, ammettendo che quest’ultimo permetta all’uomo di esprimersi in un libero arbitrio assoluto (ma questa libera volontà era perfetta solo nello stato iniziale di innocenza) risulta essere comunque difettoso. Un Dio d’amore può permettere ad un uomo di dannarsi, solo perché non comprende pienamente il suo errore? Sarebbe come dire ad un cieco d’attraversare liberamente la strada. Ma se il Dio d’amore non dona prima la vista, come potrebbe pretendere una scelta giusta. Ma, almeno logicamente, una volta riavuta la vista il cieco sarebbe un pazzo a non scegliere la salvezza, anche ragionando egoisticamente. La grazia è pertanto salvifica di per sé. La lettura di Lutero, da parte di Kierkegaard, forse è stata viziata dal contesto del suo tempo e dalle nuove correnti culturali, ma, forse sbagliando, non credo che il filosofo danese tratti con serietà i veri stadi dell’uomo: innocenza, peccato e redenzione. E tutto questo per dare senso ad una visione antropocentrica del mondo.
Una scappatoia per Kierkegaard, è rappresentata dal suo sistema dialettico, dove tenta di conciliare i concetti di libertà e necessità. Sarà, ma non ne sono convinto. La dialettica va affrontata tenendo sempre presente la sua fondazione: Dio.
Come se non bastasse positivismo, scienza moderna, hanno fatto di tutto per uccidere Dio, ma, purtroppo per loro, egli gode tuttora d’ottima salute, con buona pace di Woody Allen.

Una critica che faccio ai cristiani odierni, ubriacati di liberalismo, neopositivismo, ebraismo legalistico, esistenzialismo etc., è, appunto, quella di avere lentamente traslato la teologia da un piano cristocentrico verso un piano antropocentrico, trasformando la religione in moralità pragmatica, quando non astratta… traslazione ambigua, altrimenti si dichiarerebbero apertamente, ma presente…

Certo, possiamo negare questo male radicale e non interessarci del fatto che Cristo, solamente ci offre una mano per uscirne (cfr. Atti 4, 28-30), ma allora perché ci si vuol chiamare cristiani? Nulla di “male”, vedere il mondo in modo nietzscheano o feurbachiano, se Dio vuole che anche la contraddizione venga espressa. Ma solo una cosa, ripeto: non chiamiamoci cristiani.

Per chiudere, riporto questa interessante riflessione del teologo O.H. Pesch: “La nostra impostazione deve escludere che l’antropologia che si elabora vada poi qualificata, in senso peggiorativo, come ‘antropocentrica’, che non consente dunque di mantenere aperto lo sguardo per il Dio sempre più grande. E Dio è ben più del partner trascendente dell’essere umano, la sua opera è ben più della creazione e salvazione. La teologia dovrà sempre combattere una ‘riduzione antropologica’ di questo tipo, che limita l’interesse teologico esclusivamente per una salvezza dell’uomo intesa possibilmente in termini individualistici, stigmatizzando il resto come ‘speculazione’ indebita. Difenderà invece le elaborazioni (apparentemente) niente affatto antropologiche della tradizione preluterana, e le sue varianti moderne, ma anche i timidi tentativi di una teologia della ‘con-creatura’, un riflettere teologico che non dovrà degenerare in ‘teologia ecologica’. Del resto anche colui che passa per l’ideatore di questa riduzione di tipo antropologico — Martin Lutero [ndr. antropologico, non antropocentrico] — tutto sommato intendeva la divinità di Dio come il senso della dottrina della giustificazione. Appellandoci alla comune tradizione cattolica e riformata — per non parlare di quella ortodossa — dobbiamo rimettere al centro l’antropologia teologica e mantenerla libera da un antropocentrismo egoistico per il quale la divinità di Dio e la sua creazione altro non sarebbero che note marginali, o tutt’al più il tema per una riflessione meta-teologica. [Vedi a questo proposito le relazioni di lavoro c le bibliografie che la “Ökumenische und interdisziplinäre Studiengruppe ‘Ethik der Schöpfung’ pubblica regolarmente sotto la direzione di G.M. Teutsch (Padagogische Hochschule Karlsruhe, Archiv für Hodegetische Forschung); inoltre JENSEN, Unter dem Zwang des Wachstums spec. 45-48; KROLZIK, Umweltkrise, T. KOCH, Der Leib und die Natur]”. Vedi PESCH O.H., Liberi per grazia, Queriniana, Brescia, 1988, p. 24.

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