di Giorgio Ruffa
I. Premessa
Innumerevoli questioni si possono aprire su questo argomento. Si può pensare che l’idea del libero arbitrio sia dovuta alla contingenza umana. Se il libero arbitrio, poi, esista, o no, in senso assoluto, è uno dei problemi filosofici, e teologici, per eccellenza.
Coloro che hanno voluto sostenere libero arbitrio, li potremmo dividere, schematicamente e riduttivamente, in tre categorie: la prima vede quelli che hanno voluto avvicinare gli attributi umani a quelli divini, ossia antropomorfizzando il divino; quelli che li hanno voluti superare in nome dell’emancipazione della ragione, cercando di superare o per meno accantonare il piano del divino ed infine una terza che vede nel libero arbitrio una necessaria conseguenza dello stato creatura razionale, creata ad immagine e somiglianza di Dio, e quindi capace di discernere.
E’ ovvio che questa distinzione sia formale, come tutte le divisioni di questo tipo. Attribuire, ad esempio, gran valore alla ragione, kantianamente parlando, ha degli indiscutibili meriti nei confronti del progresso umano. Ciò che è umano, però, appartiene al campo del sensibile e quindi del contingente. Come sappiamo ciò che è contingente è soggetto al divenire e pertanto è un oggetto finito e privo di compimento. Ora se la ragione umana sia finita, oppure no, fa parte di un altro argomento per ora basti questo per affermare che l’uomo di fronte all’Assoluto, in qualunque modo lo si voglia concepire, situa, in quanto creatura, in una posizione ontologicamente inferiore.
E’ chiaro quindi che la ragione può approssimarsi asintoticamente alla comprensione dell’Assoluto, il quale finché ci troveremo all’interno del piano intellettivo umano non potrà essere svelato. Tommaso d’Aquino ha posto il problema della comprehensio maniera teoreticamente eccellente nella Somma Teologica (S.Th., I, q.12; q.57-58), negando alla creatura, anche quella angelica, la possibilità della conoscenza, o per meglio dire la comprensione, dell’ente in cui coincidono essenza ed esistenza. Questa conclusione deriva dal fatto che, come è noto, nel sistema tomistico la conoscenza è data dall’adequatio intellectus et rei.
Abbiamo pensato, per questo articolo, di porre a confronto Martin Lutero con un’altra eminente, e problematica, personalità della teologia cristiana: Origene. Quest’accostamento non è affatto inusitato: i padri della chiesa ed i filosofi scolastici erano il bagaglio comune di qualunque teologo contemporaneo a Lutero. Inoltre i tredici secoli che separano questi due grandi personaggi del pensiero cristiano non pongono, in generale, dei problemi dal momento che, come sappiamo, il tempo è una categoria relativa e le idee hanno un valore che lo trascendono.
La figura di Agostino verrà richiamata, durante la trattazione, per mostrare i parallelismi con la dottrina luterana. In questo breve scritto non potremmo fare altro che accennare ai problemi principali; in questa sede, infatti, non possiamo minimamente pensare di tentare un commento alle opere di Origene e di Lutero data la loro ampiezza e complessità.
Cercheremo di analizzare le idee di fondo, tenendo presenti soprattutto le antitesi, di Origene e di Martin Lutero, basandoci sul libro III dei “Principi” e sul “Servo Arbitrio”.
II. Questioni generali
Prima di cominciare qualunque discorso, poniamo in evidenza il fatto che Lutero non neghi all’uomo la capacità d’intendere e di volere. L’asserzione contraria deriva, semmai, da preconcetti. Ciò appare chiaro nel XVIII articolo della “Confessione augustana” del 1530: “Sul libero arbitrio insegnano [le chiese riformate] che la volontà umana ha una certa quale libertà nell’attuare la giustizia civile e nello scegliere le cose che dipendono dalla ragione. Ma non ha il potere, senza lo Spirito Santo di attuare la giustizia di Dio o giustizia spirituale, poiché l’uomo naturale non può percepire le realtà proprie dello Spirito di Dio […]”. Questa tesi è basata sul testo paolino di I Corinzi 2, 14-15: “L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno”.
Pertanto, per il riformatore, la ragione diventa meretrice di Satana e la volontà sua ancella solo quando l’uomo si arroga l’assurdo diritto di concorrere alla propria salvezza attraverso le proprie forze. Tutto questo espone al rischio di collocarsi, ontologicamente, sullo stesso piano di Dio e rendendo addirittura inutile l’incarnazione di Cristo (accusa che Agostino lanciò contro Pelagio). La libertà della creatura razionale, decaduta, non coincide con la libertà dinanzi a Dio. Il riformatore si esprime, sulla volontà umana, nel modo seguente: “La natura umana non conosce che il suo bene, ovvero ciò che è buono, onesto ed utile per lei, non ciò che è tale per Dio e per gli altri. Perciò conosce e vuole di più il bene particolare, anzi soltanto il bene individuale. […] l’uomo così ripiegato su di sè (a causa del peccato), da piegare a se stesso non soltanto i beni corporali, ma anche quelli spirituali (cercando addirittura di usare Dio come mezzo e non come fine, e da cercare se stesso in ogni cosa. Questo ripiegamento […] è un male naturale “. Lutero si riferisce alla creatura dopo il peccato. Vedi Lutero, Commento alla “Lettera ai Romani”, cap.8,3 – W.A. 56, 356. (pag. 496, dell’edizione italiana curata da Franco Buzzi).
Inoltre, in Agostino, questo ripiegamento si esprime perfettamente nel peccato più grave: l’amor di sé. Infatti anche nel ricercare la salvezza tramite le proprie capacità ci si espone al rischio di “autofilia”. Detto questo ne consegue che la creatura non può ricevere aiuto da sé “intrinseco“, essendo viziata, in modo permanente, ma solo dall’esterno “potentiore auxilio“: dal suo creatore. Inoltre lo stesso Agostino riconosce, nella disputa con Pelagio, tre dimensioni della natura umana che evidenziano lo stato di impotenza, nei confronti del bene, dell’uomo peccatore:
- Adamo nel Paradiso terrestre PUÒ NON PECCARE, volontà libera;
- Dopo la caduta di Adamo l’uomo NON PUÒ NON PECCARE,volontà schiava;
- L’uomo riconciliato per grazia NON PUÒ PECCARE, volontà conveniente a Dio.
Il terzo punto, apparentemente paradossale, esprime il vero concetto della libertà umana: libero è colui che fa la volontà di Dio.
A questo punto verrebbe da pensare che un confronto con Origene non sia possibile. Quest’ultimo pone come principio, del libero arbitrio, una fisica, in senso aristotelico, della natura razionale umana, ma, come abbiamo visto, Lutero, ed ovviamente neppure Agostino, non intende negare la possibilità di discernimento. Il baricentro della controversia non è la volontà in quanto tale, bensì lo stato in cui questa volontà si trova ad operare. Dobbiamo tener conto, inoltre, che il punto di partenza del riformatore, e di tutta la sua teologia, è solo il Logos incarnato e la sua “parola”.
Lutero ammirava, e ne abbiamo intravisto le ragioni, soprattutto Agostino, che fornirà solide basi, assieme a Paolo di Tarso, alla sua teologia, tra i padri della chiesa. Origene, invece, era spesso visto dal riformatore come un “farneticante”, un esegeta che a furia di sofistizzare sulle allegorie perdeva il lume e la comprensione genuina del messaggio cristiano ovvero del Verbo: “Dov’è Origene? […] Dove sono gli stimatissimi dottori che solo quel pover’uomo di Lutero ha il coraggio di contraddire? Ma è la stoltezza della carne che spinge a parlare in questo modo, quando gioca con le parole di Dio e non le prende sul serio. […] Origene e Gerolamo? Tanto più che fra gli scrittori ecclesiastici quasi nessuno ha trattato le Scritture in modo più insulso e assurdo di quanto abbiano fatto costoro ” . Il passo è WA 18, 704 (pag 264). Nel “Servo Arbitrio” il riformatore descrive Origene in questi termini aspri, in quanto Erasmo da Rotterdam, il suo antagonista nella diatriba, vi si appoggiava. Lutero insiste in Servo Arbitrio, WA 18, 701 (pag. 256): “Guarda quel che è accaduto a Origene, famoso interprete allegorico, nel commentare le Scritture! Ha fornito delle ottime opportunità a un calunniatore come Porfirio, tanto che anche Gerolamo ritiene sia solo tempo perso difendere Origene”.
Sappiamo che nel cosiddetto “libero esame” più di tanta speculazione valeva, e vale, l’ispirazione divina ed il dono, imperscrutabile, della Grazia. Celebre a questo proposito una frase di Lutero del 1519 che nel secondo commento ai Salmi, icasticamente, riassume una sua profonda convinzione: “Vivendo, immo moriendo et damnando fit theologus, non intelligendo legendo aut speculando“. Questo passo appare in WA 5, 163, 28 ed è citato in: LUTERO M., Prediche sulla chiesa e sullo Spirito santo, a cura di Giuliana Gandolfo, traduzione di Frithjof Roch, Torino, Claudiana, 1984, pag. 44.
Tutto ciò a volte giustifica la violenza oratoria del riformatore, il quale non sopportava i sofismi, soprattutto quelli scolastici, applicati alle scritture. Difatti, Lutero, temeva il prevalere della ragione sulla fede. Ricordiamo, che anche il vescovo di Ippona pone la ragione in rapporto dialettico con la fede cui spetta il primato di principio. Per esempio nel De trinitate, I,1 dice: “La nostra penna intende vigilare contro le false affermazioni di quelli che disprezzano partire dalla fede; e son tratti in inganno da un infantile quanto fuorviato amore della ragione“.
Come accennato sopra, non possiamo affrontare questo problema senza considerare il contributo dato da Agostino di Tagaste. Come è noto la sua posizione sul problema del libero arbitrio fu duplice: nella prima fase è Agostino appena convertito che nel dialogo De libero Arbitrio, contro i Manichei, difende la libertà umana e il non essere del male (idea di origine Stoica, ma chiaramente trattata da Plotino, Enn. I,8,3-5. Nel mondo cristiano è trattato da Clemente d’Alessandria, Stromata IV, 13, ed anche da Origene, De Principiis I,109); nella seconda fase, la più, teoreticamente, matura, Agostino diviene il Doctor Gratiae contro le posizioni di Pelagio.
Nel De libero Arbitrio Agostino afferma che l’uomo e la sua volontà, entrambi provenienti da Dio, sono per natura buoni. La prescienza divina non nega la libertà dell’uomo: egli si trova in una condizione media capace di volgersi al bene oppure al male. Quest’ultimo consiste nel preferire ciò che è ontologicamente minore nella scala dell’essere (concetto platonico. Cfr. Platone, Simposio, 210A – 212A). Al male quindi non si dà alcuna realtà confutando così le dottrine dualistiche.
Questa visione della questione è, per così dire, classica, rientrando nella categoria della concezione della libertà come capacità di autodeterminazione implicita nella natura razionale, e non coinvolge nè il problema del peccato originale nè quello del traducianismo, posto dagli stoici (cfr. Temistio, De Anima, II, 5; Galeno, Opere, IV, 699), da Tertulliano (De Anima, 22) e ripreso con forza dalla riforma protestante.
Agostino capovolge questa visione nella polemica contro Pelagio, il quale affermava che l’uomo poteva salvarsi con le proprie forze dato che il peccato originale non aveva completamente distrutto l’insita capacità al bene della natura umana. Pelagio, alla pari di Clemente d’Alessandria ed Origene, non dava grande importanza al peccato originale. Agostino reagisce ponendo l’accento su quest’aspetto.
Di capitale importanza, in questa situazione, è il capitolo VII della lettera di Paolo ai Romani, sempre trascurato, o per lo meno, letto con altri intenti esegetici, da Clemente Alessandrino e da Origene. Paolo, in effetti, è sempre stato considerato, da parte di una certa tradizione teologica, un personaggio scomodo, come del resto Agostino. Tanto per fare un esempio, sin dall’inizio, la tradizione giudaica, fu critica nei suoi confronti: il punto pricipale della diffidenza giudaica fu la critica alla “Legge”. Inoltre, una delle tante accuse rivolte Paolo fu quella di gnosticismo. Di questo fatto non dobbiamo meravigliarci in quanto anche Origene, nel sostenere il libero arbitrio, considera gnostici (De Principiis, libro III, 8; dove, ovviamente, Origene non si riferisce a Paolo ma bensì agli gnostici valentiniani) coloro i quali ammettono una predestinazione ossia giudicano ineluttabile il destino degli uomini spirituali e di quelli materiali (ilici).
Per quanto riguarda la posizione cattolica romana, bisognerebbe fare molte distinzioni, che esulano e travalicano questo contesto. Nell’eccellente edizione del “Commento alla lettera ai romani” di Lutero, il sacerdote ambrosiano Franco Buzzi delinea nell’introduzione, senza alcuna tendenziosità, lo stato degli studi su questo problema. Grosso modo la questione è tenuta, per i più, in secondo piano, essendo scomoda alla dottrina romana. Comunque la questione è ancora aperta mancando una posizione univoca, che non sia quella dogmatica.
Ritornando al nostro discorso, il problema del conflitto interiore è già presente nei libri VII e XIII delle Confessioni. La conseguenza del passo paolino è che dopo il peccato originale la volontà non è più libera: la possibilità di compiere un’azione semplicemente volendo, non basta. La volontà si è indebolita, non può compiere da sola ciò che vuole in quanto dominata dalla colpa originaria. Coabitano nell’uomo due nature: una che vuole il bene e l’altra che spinge irreversibilmente al male. L’umanità, da sola, non è altro che una massa damnationis. Lutero, in questo contesto, introduce il termine noluntas al posto di voluntas. Vedi: Commento alla “Lettera ai Romani” cap.7,18 – W.A. 56, 345. (pag. 480).
L’importantissma espressione massa damnationis, ma anche massa peccati, massa dannata, individua un concetto che Agostino conia durante la disputa pelagiana, e non solo, ma pure in quel grande affresco umano che è il De Civitate Dei. Questa immagine esprime il fatto che l’umanità, a causa del peccato originale, è di per sé dannata senza alcuna possibilità di salvezza (cfr. Ro 3:9-18). La potremmo definire una sorta di “costante antropologica” in quanto riguarda TUTTA l’umanità (universa generis humani, dice Agostino), sia cristiana o meno, è incapace di riscattarsi senza un intervento esterno, ossia, nel nostro contesto, la Grazia. Ecco qualche passo di Agostino, che manteniamo in originale per meglio apprezzare il peso di questa espressione.
- Epistola 194, […] ubi una eademque massa damnationis et offensionis involvit, ut liberatus de non liberato […] quod etiam sibi supplicium conveniret, nisi gratia subveniret. Si autem gratia, utique nullis.
- De Civitate Dei – Liber 21, […] est universa generis humani massa damnata; quoniam, qui hoc primus admisit, cum […] opera committuntur, ad damnationis iudicium non vocari.
- Contra Iulianum – Liber V, […] ex eadem quidem massa ex qua et isti, sed vasa irae facti sunt, ad […] massa perditionis et damnationis secundum duritiam cordis sui et cor impaenitens, quantum ad ipsos pertinet.
- Contra Iulianum – Liber VI […] non est massa damnata? Quid, quod homo fatuitatis expers et ab invidiaestimulis […], sunt homines rei damnationis aeternae.
E, per chiudere questa serie di citazioni, un passo contiene tutta la dottrina: – De natura et gratia – Liber I., 5. 5. Universa igitur massa poenas debet et, si omnibus debitum damnationis supplicium redderetur, non iniuste procul dubio redderetur. Qui ergo inde per gratiam liberantur, non vasa meritorum suorum, sed vasa misericordiae nominantur [Ro. 9, 23] Cuius misericordiae nisi illius, qui Christum Iesum misit in hunc mundum peccatores salvos facere, quos praescivit et praedestinavit et vocavit et iustificavit et glorificavit? Quis igitur usque adeo dementissime insaniat, ut non agat ineffabiles gratias misericordiae quos voluit liberantis, qui recte nullo modo posset culpare iustitiam universos omnino damnantis?
Riportiamo anche la traduzione di quest’ultimo passo, vista la sua importanza: «Tutta la massa umana deve dunque scontare le sue pene e, se a tutti si rendesse il dovuto castigo della condanna, non si renderebbe certo ingiustamente. Perciò coloro che vengono liberati dalla condanna per grazia, non si chiamano vasi pieni di meriti propri, bensì vasi di misericordia. Misericordia di chi se non di colui che mandò il Cristo Gesù in questo mondo a salvare i peccatori, che da sempre ha conosciuti, predestinati, chiamati, giustificati e glorificati? Chi dunque vuol essere tanto pazzo da non rendere ineffabili grazie alla misericordia divina liberatrice di quelli che vuole, se in nessun modo avrebbe il diritto d’incolpare la giustizia divina anche se fosse condannatrice di tutti senza eccezione?».
Per esemplificare ulteriormente il discorso, riportiamo qui di seguito, in traduzione, un’altra serie di passi agostiniani, che chiarificano la posizione dell’uomo nei confronti della grazia. Concetti che sentiremo risuonare con forza nel pensiero del riformatore di Eisleben.
- a] Il libero arbitrio non vale che a peccare se rimane nascosta la via della verità(Lo spirito e la lettera 3,5).
- b] Voi vorreste che l’uomo diventi perfetto quaggiù, ma volesse il cielo che lo fosse per dono di Dio (Cfr. Giovanni 6, [43]Gesù rispose: “Non mormorate tra di voi. [44]Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato) e non per libero, o, piuttosto, schiavo arbitrio della propria volontà (Contro Giuliano 2,8,23).
- c] Quale è dunque il merito dell’uomo precedente alla grazia, in virtù del quale possa riceverla, dal momento che ogni nostro merito è in noi solo l’effetto della stessa grazia? Quando Dio premia i nostri meriti non fa che premiare i suoi benefici (Lettere 194, 5, 19).
- d] Egli [Paolo] dunque afferma che si trovano in maniera condannabile sotto la Legge coloro i quali sono resi colpevoli proprio dalla Legge in quanto non la osservano e, non comprendendo il beneficio della grazia, sono pieni della loro orgogliosa arroganza e presumono d’osservare i comandamenti di Dio come se ciò dipendesse dalle proprie forze (Lettere 82,2,20).
Questa, in breve, è la posizione della tradizione paolina, ben accolta ed interpretata da Agostino e da Lutero, dove sono fondamentali le categorie del peccato, del sub lege e del sub gratia. L’eco di questa tradizione verrà fissata da Pietro Lombardo nel XII secolo in una sua celebre Sentenza: “[Il libero arbitrio è] la facoltà della ragione e della volontà, di scegliere il bene in presenza della grazia o il male in assenza della stessa“. Vedi: Pietro Lombardo, Sententiae in IV libros distinctae, tomo I, parte II, 452 s.
In definitiva, come abbiamo già accennato, il vero nocciolo della questione lo si individua sulle reali capacità della natura umana ad ottenere la grazia. Lutero su questo punto è intransigente: “[…] quando esaltano le nostre capacità naturali, negano due volte Cristo, in una doppia immensa follia. A che serve fingere di avere fede in lui, se si afferma che egli non è necessario, bestemmiandolo due volte?” (M.Lutero, W.A. 8, 411- 476, pag. 468. Vedi nota bibliografica “Messa, sacrificio e sacerdozio“, pag. 266).
A conclusione, di questa sezione, vediamo brevemente quale fosse il pensiero di Origene sulla questione. L’uomo vive due realtà: quella primaria spirituale, o di sostanza razionale, e quella secondaria, dovuta alla caduta, di anima. Quest’ultima rappresenta il termine medio tra spirito e corpo. Questo schema tricotomico — spirito, anima, corpo — era ben conosciuto da Lutero. Egli, però, non lo considera come parte costitutiva dell’uomo bensì come modi di essere. Il termine medio rimane l’anima che si rapporta allo spirito nella grazia e al di fuori di essa al corpo. Cfr. Commento alla lettera ai romani W.A. 56,476 (pag. 682 sg.). Il primario stato di libertà, che abbiamo visto con Agostino, in Origene permane anche dopo la caduta, causata appunto dal libero arbitrio. Questo significa che la creatura, in seguito, potrà redimersi per sua scelta. L’incarnazione è vista come un’azione illuminatrice del Logos, immagine e riflesso di Dio.
Comunque lo si ponga, il problema è paradossale: in ogni caso l’uomo necessita di un aiuto esterno: all’uomo viene indicata — per un atto d’amore (Origene evidenzia il concetto di àgápe, Dio ama le sue creature e vuole che nessuna sia perduta. Questo concetto è spesso ricorrente nei vangeli: il buon pastore, il figliol prodigo, la figura del medico etc.) che non è però paragonabile, come meccanismo, alla grazia salvifica trattata da Paolo — la strada, ma sta a lui scegliere se seguirla oppure dannarsi; notiamo che nel sistema origeniano questa scelta è condizionata da cause precedenti al corpo, secondo la dottrina della preesistenza delle anime. Questo, inoltre, ricorda il mito, platonico, di Er. Proseguendo il nostro discorso, il messaggio cristiano ha un valore pedagogico (questo, a titolo di esempio, era il fine delle tre celebri opere di Clemente d’Alessandria: il Protrettico, il Pedagogo e gli Stromata): attraverso la pratica, che ricorda l’Etica nicomachea, e le opere consone alle scritture, che illuminano il percorso da seguire, l’uomo può percorrere con le proprie forze un itinerario verso Dio. Se vogliamo Origene è un precursore di Pelagio, o per lo meno così rischia di apparire.
Il tema della Paideia che porta alla purificazione sarà, successivamente, tipica anche nei padri del deserto. La vita anacoretica era scelta appunto per concentrarsi nell’educazione e nell’esercizio spirituale.
Quindi, fin qui, Origene si mantiene in un ambito tradizionale, nei limiti che questo termine può avere nel II secolo. I problemi nascono quando Origene deve precisare la durata di questa educazione. Egli introduce, allora, la teoria dei mondi successivi. La creatura dovrà purificarsi attraverso una serie di esistenze, distinte, prima di ritornare a Dio: questo ritorno, che ricorda il plotiniano procedere del molteplice all’Uno, riguarda tutte le creature, comprese le più malvage, in ordini e tempi diversi. Addirittura dopo la restaurazione —Apokatastasi— la creatura, per la sua libertà, potrebbe ricadere e ricominciare così un nuovo ciclo (De Principiis, III, 6, 3). Quest’ultima, azzardata, teoria è comunque dubbia, dato che il testo in questione deriva da un’aggiunta proveniente, probabilmente, da ambienti avversi.
Certo, che il volere ammettere una libertà assoluta per la creatura può facilmente portare a simili conclusioni. Difatti, come abbiamo visto, in Agostino il destino dell’uomo, come fine ultimo assoluto, è quello di “Non poter peccare” e quindi volgere la propria volontà solo ed unicamente verso il bene. Origene precisa, peraltro, che l’amore di Dio possiede la forza di mantenere la creatura salvata nello stato di beatitudine senza ledere il libero arbitrio. Questo punto è fragile ed ambiguo ed Origene non lo sviluppa, per quanto ci è giunto, a sufficienza. Tutta la dottrina del libero arbitrio, anche quella dei secoli successivi e sopratutto nella scolastica, si troverà invischiata nel dilemma della grazia ovvero sulla sua capacità attiva o passiva d’intervento.
Notiamo, ancora una volta, che il peccato originale ha una valenza più attenuata: il primato spetta alla libertà, poiché l’uomo è stato creato secondo Logos e quindi possiede alcune sue prerogative.
Il sistema teoretico di Origene è coerente in sé ma non lo si può certo considerare, pienamente, “cristiano”. Influssi stoici, neoplatonici e gnostici sono evidenti. Le condanne inflitte nel 543 e nel 553 (rispettivamente l’Editto di Giustiniano e il V Concilio Ecumenico), criticabili in quanto Giustiniano fu influenzato oltre che dalla polemica teologica in sé anche da ragioni politiche, testimoniano la pericolosità del sistema Origeniano. D’altra parte i problemi saranno difficilmente sciolti: le opere origeniane pervenuteci sono veramente poche (La produzione di Origene, secondo alcune fonti, fu enorme. Gerolamo gli attrbuisce 800 opere [Epist., 33] ed Epifanio di Salamina, con esagerazione retorica, addiritura 6000 [Haer., 64, 63]). Siamo certi che, comunque, Origene si sia mosso in questo modo poiché non considerava il problema lesivo per l’ortodossia in quanto non pienamente regolato dalle scritture ovvero mancanti di “precisa distinzione e chiara regola” (De Pincipiis, libro I, Prefazione). L’opera teologica di Origene si fonda sulla ricerca e non sulla fondazione di dogmi.
III. Lutero e Origene
La prima differenza sostanziale tra i due teologi è il metodo esegetico. Origene, come sappiamo, adottava un suo rigoroso sistema basato principalmente sull’uso dell’allegoria e sulla distinzione tripartita dei livelli di comprensione. L’intero libro IV dei “Principi” è dedicato ai criteri d’interpretazione. Origene individua tre categorie: Senso (Letterale, Morale, Spirituale), Grado d’educazione (Incipientes, Progredientes, Perfecti) e Relezione (Corpo, Anima, Spirito). Il senso “spirituale”, in altre parole quello allegorico, si divide a sua volte in tre categorie di significato: tipologico, morale, escatologico o verticale. Tralasciando l’aspetto tecnico, che esula dalla nostra trattazione, notiamo che la categoria dell’educazione è fondamentale per la comprensione delle scritture.
Fermiamoci qui! Lutero considera questo discorso fuorviante. Per prima cosa le scritture devono essere patrimonio comune di tutti i credenti senza distinzioni, inoltre la Scrittura si spiega, con l’aiuto della grazia, sempliciter, con la Scrittura. Quest’ultima è un’idea comune nell’esegesi antica, la quale considerava unitariamente il corpus biblico. Lutero, però, rigetta decisamente il metodico ricorso all’allegoria, fonte di gravi errori e fraintendimenti. Leggiamo il seguente passo dal Servo Arbitrio.
Sembra assurdo dire che Dio, il quale è non solo giusto ma anche buono, abbia indurito il cuore di un uomo per mettere in luce il proprio potere attraverso la malvagità di quest’ultimo. […] ricorre [Erasmo] perciò a Origene, il quale ammette che l’occasione dell’indurimento è stata data da Dio, ma getta tuttavia la colpa sul Faraone. Sempre Origene ha notato inoltre che il Signore ha detto: Io t’ho lasciato sussistere per questo [Es. 9,16]. E non: Ti ho creato per questo. Altrimenti, se Dio lo avesse creato com’era, Faraone non sarebbe stato empio, poiché Dio, guardando tutto quello che aveva fatto, disse che Era molto buono [Gen. 1,31]. Così scrive la Diatriba [di Erasmo]. Una delle cause principali per cui le parole di Mosè e di Paolo non vengono intese nel loro senso letterale è quindi la loro assurdità. Ma contro quale articolo di fede pecca questa assurdità? O ancora, chi ne rimane scandalizzato? A scandalizzarsi è la ragione umana, la quale, benché cieca, sorda, stolta, empia e sacrilega di fronte a tutte le parole e le opere di Dio, si erge qui a giudice proprio delle parole e delle opere divine. Con lo stesso argomento puoi negare tutti gli articoli di fede, poiché è del tutto assurdo e, come dice Paolo, per i giudei è scandalo, e per i gentili, pazzia [I Cor. 1,23], il fatto che Dio sia uomo, figlio di una vergine, crocifisso e sieda alla destra del Padre “. Vedi: Servo Arbitrio, WA 18, 707 (pag. 268).
Dal passo appena citato abbiamo notato l’ennesima critica alla ragione umana: l’allegoria è, in un certo qual modo, un esercizio della ragione che trascende il puro significato della “Parola”. Abbiamo precedentemente citato altri passi del riformatore, i quali, sebbene pesantemente polemici, inquadrano chiaramente il suo pensiero. Lutero, nel confutare Erasmo e conseguentemente Origene, utilizzerà proprio la critica al metodo allegorico. Egli, probabilmente, vedeva nella distinzione dei gradi di educazione, e d’interpretazione, una celata forma di gerarchia temporale. La chiesa romana infatti si era ormai eletta a giudice della dottrina e dell’esegesi, proprio ciò che il riformatore combatteva: l’unica autorità della chiesa doveva essere Cristo e la sua Parola.
Come se la cava, Lutero, con il problema, fondamentale in Origene, della teodicea: può Dio compiere il male? Proseguendo dal passo precedente il riformatore afferma: “A che serve affaticarsi con queste speculazioni per rigettare sul libero arbitrio la colpa dell’indurimento? Che il libero arbitrio faccia pure con tutte le sue forze ciò che è in suo potere; nondimeno sarà incapace di mostrare un solo esempio in cui l’uomo possa evitare di essere indurito, se Dio non gli avrà dato lo Spirito, o in cui si sia meritato la misericordia, se sarà stato abbandonato alle sue sole forze. Che importa infatti che sia indurito, o che si meriti di essere indurito, dal momento che l’indurimento è necessariamente nella sua natura, sin tanto che, a detta dalla stessa Diatriba, è nella sua natura l’incapacità di volere il bene?” (Servo Arbitrio, WA 18, 708 (pag. 269)).
Lutero, successivamente, precisa ancor meglio da cosa dipenda questa incapacità della volontà umana: ” La seconda ragione addotta dalla Diatriba è che quel che è fatto da Dio ” è molto buono” [Gen. 1 ,31 ] e che Dio non ha detto: “Io t’ho creato per questo”, ma: “Io t’ho lasciato sussistere per questo” [Es. 9, 16]. In primo luogo, diciamo che ciò è stato affermato prima della caduta dell’uomo, quando le cose fatte da Dio erano molto buone. Ma, nel terzo capitolo della Genesi, segue immediatamente il racconto del modo in cui l’uomo è divenuto malvagio, è stato abbandonato da Dio e lasciato a se stesso. Da questo uomo così corrotto sono nati tutti gli empi, compreso Faraone; come dice Paolo: “Eravamo per natura figliuoli d’ira, come gli altri” [Ef. 2,3] “.
Ecco riaffiorare il tema del peccato: l’indurimento deriva appunto dalla natura decaduta, l’intervento di Dio può solo salvarlo. Nell’assoluta preveggenza “Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia” (Esodo 33,19). Il mantenimento nello stato di peccato lo si può considerare inscritto in un progetto divino ma ” la ragione dichiarerà che ciò non si conviene a un Dio buono e misericordioso. Supera di troppo le sue facoltà di comprensione e non può neppure costringere se stessa a credere che un Dio, il quale operi e giudichi in tale maniera, sia buono; ma, a prescindere dalla fede, vuole toccare, vedere e comprendere in che modo sia buono e non crudele. […] in che modo siano buone al cospetto di Dio le cose che per noi sono cattive, questo solo Dio lo sa e coloro che vedono con gli occhi di Dio, cioè che possiedono lo Spirito ” (Servo Arbitrio, WA 18, 709 (pag. 271)).
L’abbandono, quindi, non ha, come in Origene, una funzione purificatrice bensì un significato che trascende la ragione umana. Origene, in questo contesto, usa, retoricamente, una terminologia di carattere medico per esporre il modo di operare di Dio nella correzione di una sua creatura. Ora, si potrebbe ricordare che è stata la creatura a voler abbandonare il creatore (cfr. Isaia 53,5: Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni). Pertanto, per Lutero, sarebbe impensabile, senza la grazia, un ritorno fondato su di una decisione unilaterale e sulle sole opere.
Da quanto detto sinora appare chiaro che i punti di partenza dei due teologi sono in antitesi. In Origene viene postulata l’assoluta bontà della creazione divina, la quale viene salvaguardata dal libero arbitrio. Egli ammette che il libero arbitrio necessita della cooperazione della grazia, in quanto tutte le creature sono destinate alla restaurazione dell’originaria purezza. Questa purificazione, come già accennato, passa attraverso l’educazione e la correzione divina. Entrambe non sono mai coartate: occorreranno, pertanto, tempi e modi diversi per ciascuna creatura. Sarà, infatti, quest’ultima a dover capire e riparare i propri peccati.
Lutero, ovviamente, ammette l’assoluta bontà dell’opera divina. La scelta, iniziale, della creatura di volgersi in basso diviene irreversibile. Nulla essa potrà per ottenere la salvezza con le proprie capacità. Di questo ne abbiamo parlato più sopra. La volontà viene schiacciata dal peso della colpa, la “carne” non potrà partecipare allo “spirito”. Si inserisce allora l’avvenimento, unico ed irripetibile, che segna l’amore assoluto di Dio per le sue creature: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Giov 3, 16-17). Non per nulla la teologia di Lutero è definita Teologia Crucis. Solo un evento così scandaloso, per la ragione, poteva sollevare l’uomo dal peccato. Il tema dell’incarnazione come scandalo sarà trattato, in epoca moderna, in modo magistrale dal filosofo danese Søren Kierkegaard. Come sappiamo Lutero, su questo punto, è intransigente: solo la libera ed unilaterale decisione di Dio può dare la salvezza; all’uomo non spetta alcun merito.
L’antitesi, tra Origene e Lutero, quindi risiede nella capacità dell’uomo di concorrere alla salvezza. Inoltre, Origene teorizza una salvezza universale mentre Lutero prospetta per alcuni, radicalmente perduti, la morte seconda. Inoltre non vi è nulla, per l’uomo, che indichi il suo stato di eletto o di dannato, in quanto questa conoscenza appartiene alla imperscrutabile volontà di Dio: “Io sono la via, la veritá e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.[…] Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Giovanni 14, 6; 15, 16).
IV. Conclusioni
In questo breve excursus ci siamo avvicinati ad un problema, il libero arbitrio, importante e vitale nella tradizione cristiana. Abbiamo osservato due posizioni contrastanti: infatti, pur partendo da una base comune, la scrittura, i due teologi sono giunti conclusioni antitetiche. Ovviamente questo non ci stupisce minimamente. è lo stesso testo biblico che pone difficoltà ed aperture imprevedibili.
Certamente i fini dei due teologi erano molto diversi: Origene compone un’opera, “i Principi” dove la teodicea rappresenta la preoccupazione principale nel combattere le dottrine dualistiche degli gnostici; Lutero nel confutare, forse a malincuore, Erasmo combatte, in effetti, contro tutta quella tradizione che ha reso, a suo parere, la chiesa corrotta, pelagiana e cesaropapista. Entrambi, però, combattono per la purezza della chiesa.
Dobbiamo capire, poi, che Origene si muove, per ragioni puramente cronologiche, siamo nel III secolo d.C., in un campo ancora dinamico e pericoloso: molti punti teologici non sono ancora stati fissati e quelle che, forse impropriamente, chiamiamo eresie sono dietro l’angolo, Nicea è ancora lontana. Bisogna far notare che, in un periodo in cui l’ortodossia non era stata, ancora, pienamente definita considerare le altre visioni del cristianesimo eretiche non sembra del tutto corretto. Il campo in cui si muove Lutero, invece, possiede una tradizione di quindici secoli dove molti punti teologici, per contro, sono degenerati in errore o per lo meno mal interpretati.
Questa differenza di contesto la si evince anche dai metodi di lavoro usati dai due teologi: la proposta dottrinale e la ricerca in Origene; la riforma dottrinale e la lotta dialettica in Lutero.
Il confronto tra i due non è quindi ad armi pari. Lutero si sbarazza facilmente di Origene in quanto lo inscrive in quella tradizione che avrebbe gettato i semi della degenerazione della chiesa. Pensiamo, in ogni modo, che la stessa arma dialettica sia usata da Origene contro gli gnostici: generalizzandone le dottrine e gli esponenti. Inoltre i lettori, sia di Origene sia di Lutero, erano poco interessati alla parte avversa ma miravano soprattutto alla dottrina esposta.
Per concludere, abbiamo notato che Lutero nel confutare Erasmo, e quindi anche Origene, sottolineasse l’importanza della grammatica e della lingua, del resto siamo in un contesto “umanistico”, al di là della lettura allegorica, che considera come una pericolosa fonte di errori. Origene, d’altra parte, si inscrive perfettamente nella tradizione alessandrina che ebbe come massimo precursore Filone d’Alessandria. Questo ci porta ad una scontata conseguenza: l’ambiente, il periodo storico, le motivazioni individuali e tutti gli altri eventuali contesti devono essere conosciuti per poter comprendere un autore. Questo è detto poiché, mentre per Lutero siamo in concreto informati su tutto, per Origene abbiamo una conoscenza lacunosa dei suoi scritti e della sua vita. Le ragioni di questo le abbiamo già accennate.
Quindi se per l’interpretazione di Lutero non è data la parola fine, tanto meno lo può essere per Origene. L’interpretazione dell’opera di quest’ultimo è una questione che rimane aperta.
NOTA BIBLIOGRAFICA
- La confessione augustana del 1530, a cura di Giorgio Tourn, Torino, Claudiana, 1980, (“Testi della Riforma”, n. 9).
- ATKINSON James, Lutero: la parola scatenata, Torino, Claudiana, 1992 (2a ed.), (“Ritratti Storici”)
- ERASMO DA ROTTERDAM, LUTERO M., Il Libero arbitrio, Il Servo arbitrio, Torino, Claudiana, 19932, (“Testi della Riforma”, n. 2).
- LUTERO M., Il Servo arbitrio, a cura di Fiorella De Michelis Pintacuda, traduzione e note di Marco Sbrozi, Torino, Claudiana, 1993, (“M. Lutero Opere scelte, diretta da Paolo Ricca”, n. 6).
- LUTERO M., La lettera ai Romani, a cura di Franco Buzzi, Milano, Edizioni Paoline, 1991, (“I Classici del pensiero cristiano”, n. 7).
- LUTERO M., Messa, sacrificio e sacerdozio, a cura di Silvana Nitti, Torino, Claudiana, 1995, (“M. Lutero Opere scelte, diretta da Paolo Ricca”, n. 7).i Principi
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